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Nei luoghi della memoria della Resistenza: S. Valentino e Ca' Cornio

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LA STORIA DELLA “BANDA CORBARI”

Ca’ Cornio
Ca' Cornio
La casa si trova sull’Appennino Tosco Romagnolo tra odigliana e Tredozio. Davanti alla casa, c’è ora uno spazio libero che all’epoca della seconda guerra mondiale era occupato dall’aia e da Ca’ Cornio di Sopra, l’altro casolare posto di fronte, di cui ora si notano pochi ruderi. Al centro della facciata spicca la lapide posta nel 1962 dall’Associazione Mazziniana Italiana per ricordare la tragica fine di quattro partigiani ai quali sono state concesse medaglie d’oro al valore militare.
Ora la casa, di proprietà della provincia di Forlì-Cesena, è gestita dall’Agesci (Associazione Scout Cattolici Italiani) di Modigliana.
La casa è meta di molte uscite di gruppi scout (comprende camere da letto, cucina, camino, bagni).



 

Silvio Corbari
(Faenza, 10 gennaio 1923 – Castrocaro Terme, 18 agosto 1944)

 
Casa CorbariAll’anagrafe lo registrarono come Sirio Corbari, figlio di Domenico Corbari e Anna Ciani. Verrà comunemente detto “Curbera”.
Quartogenito di una famiglia di cinque figli, Silvio crebbe a Faenza, nel borgo Durbecco (casa natale a lato); fu proprio nel cortile e sul campetto di pallone di Sant’Antonino, la chiesa attigua alla sua casa, che conobbe il quasi coetaneo Adriano Casadei, suo futuro e fedele luogotenente.
La famiglia, di modeste condizioni, poté garantirgli soltanto le scuole elementari e l'avviamento professionale, benché il ragazzino manifestasse una grande passione per lo studio e le letture. Poi la meccanica lo attirò più di ogni altro interesse, e dopo l'apprendistato in fonderia trovò un lavoro in un’officina.
Intanto frequentava il teatro della parrocchia, dimostrando non solo buone doti di recitazione, ma soprattutto un innato talento nei travestimenti: in seguito lo avrebbe messo a frutto, rivelandosi capace di assumere le sembianze più disparate con straordinaria disinvoltura e padronanza.

Filodrammatica Berton

 

 

 

 

 

La compagnia filodrammatica “Berton” di Faenza. La foto è stata scattata il 19 Marzo 1939 in occasione di una rappresentazione. Silvio recita nella parte di un prete, è l’ultimo a destra

 

Contro la propria volontà (così riferisce la moglie Lina) intraprese il servizio militare. Ben presto si sarebbe distinto per l'avversione viscerale al fascismo, esponendosi pericolosamente.

A soli diciannove anni, sposò Lina Casadio, e la coppia ebbe di lì a poco un figlio, Gian Carlo.

“Quando Silvio si rifiutava per la sua natura ribelle e avversa al fascismo di partecipare alle gare ginniche dei preliminari, e veniva per punizione regolarmente chiuso a chiave in una stanzetta al primo piano di un edificio della piazza d’Armi, lei andava a parlargli da sotto, dalla strada, per consolarlo.” (Carla Grementieri)
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

25 Luglio 1943: la caduta del Fascismo
La notte tra il 24 e il 25 Luglio 1943 il gran Consiglio del Fascismo votò a gran maggioranza l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, che invitava il re Vittorio Emanuele III ad assumere la guida del paese. Mussolini fu arrestato nel pomeriggio del 25 Luglio e condotto in una prigione sul Gran Sasso. Alla guida del paese fu nominato l’ex comandante delle forze armate Pietro Badoglio.

8 Settembre 1943: inizia la guerra civile
Il paese fu attraversato da un’incontenibile ondata di esultanza, mentre il PNF e i suoi attivisti furono del tutto incapaci di reagire. La notizia dell’armistizio tra le forze italiane e quelle angloamericane, resa pubblica l’8 Settembre, gettò l’Italia nel caos. Il re e il governo fuggirono dalla capitale alla volta di Brindisi e, mentre le forze angloamericane sbarcavano a Taranto e a Salerno, i reparti tedeschi occupavano rapidamente l’Italia centrosettentrionale. L’esercito italiano lasciato privo di istruzioni operative, si disgregò rapidamente: alcuni militari ne approfittarono per indossare abiti civili e uscire dal conflitto, altri subirono la rabbiosa reazione tedesca (come a Cefalonia, dove 1.300 uomini della divisione Aqui resistettero ai tedeschi; i sopravvissuti,oltre 5.000, furono fucilati per ordine di Hitler).

 

La linea Gotica: ultimo baluardo
Dopo la firma dell’armistizio tra il governo Badoglio e le forze alleate i Tedeschi si preparano a contrastare l’avanzata anglo-americana verso il Nord Italia. Mentre a sud si fortificava la linea Gustav, a nord di Firenze, il comando della Wehrmacht iniziò a localizzare i punti strategici intorno ai quali allestire l’ultimo baluardo a difesa della Val Padana che, se superata, avrebbe permesso agli alleati di raggiungere facilmente la Germania. Le armate naziste, spinte verso nord dalle truppe alleate che erano sbarcate in Sicilia, si attestarono, come ultimo baluardo, sulla linea gotica (chiamata anche linea verde). Era una linea difensiva che tagliava l’Italia in due, da Pesaro-Rimini a Forte dei Marmi-Viareggio-Massa; una fascia, dunque, che attraversava in pieno anche la Romagna scavalcando tutto l’Appennino tosco-romagnolo.
Decine di migliaia di operai italiani e prigionieri dei tedeschi, di diversa nazionalità, approntarono una robusta rete di fortificazioni che andava dall’Adriatico al Tirreno per oltre 300 chilometri. Si costruirono bunker per l’artiglieria, fortini e trincee, fossati anticarro, campi minati e reticolati, mentre lungo la riviera romagnola, per prevenire sbarchi navali, si approntarono strutture di ferro e cemento armato.

La resistenza in Italia e a Faenza
Nei giorni successivi all’armistizio, i rappresentanti dei partiti antifascisti (ricostituitisi già prima del crollo del regime) avevano creato un Comitato di Liberazione Nazionale. Vi presero parte esponenti del Partito Comunista, del Partito Socialista, del Partito Liberale e del Partito Repubblicano, a cui si unirono nuove formazioni politiche come il Partito d’Azione e la Democrazia Cristiana.
Il CNL temporeggiava, invitando i giovani a non esporsi e a restare in attesa di ordini.

Anche a livello locale i partiti antifascisti sembravano colpiti da improvvisa paralisi: il PC Faentino, nonostante l'attivismo antagonista manifestato nel ventennio, e malgrado le diverse direttive del partito a livello nazionale, dopo l'8 settembre assunse un atteggiamento opportunista: arrivò a concordare una sorta di armistizio separato con i fascisti, impegnandosi a non ingaggiare la lotta armata in cambio della garanzia che i suoi dirigenti e militanti più conosciuti non sarebbero stati arrestati. E il PSI si adeguò, legato ai comunisti da un patto di alleanza.

Giovani Faentini
Dopo l’8 Settembre Silvio Corbari decise di armarsi e organizzare la Resistenza sui monti.
Insieme ad altri giovani stanchi di sentirsi dire "abbiate pazienza", il 9 settembre del 1943 Corbari iniziò fin dall'alba a rastrellare armi e munizioni nelle caserme abbandonate dai soldati allo sbando. Una settimana dopo le truppe tedesche entrarono a Faenza, e il suo gruppo, una ventina di partigiani in tutto, prese la via della montagna. Ma ben presto altri li raggiunsero, compresi alcuni ex ufficiali dell'esercito italiano, e la loro "banda" arrivò a sessanta uomini organizzati in due compagnie. Una di queste, la "formazione partigiana del Samoggia", contava sette mitragliatrici pesanti e diciassette leggere, un centinaio di moschetti più altrettante casse di munizioni e bombe a mano.

Fallisce l’attentato al Duce
Liberato dal colonnello Otto Skorzeny che lo prelevò dalla prigione sul Gran Sasso, Mussolini si recò a Monaco dove proclamò la Repubblica Sociale Italiana e quindi tornò in Italia, precisamente all'aeroporto di Forlì, il 23 settembre 1943. Lo accolsero numerosi gerarchi, tra i quali Pavolini, Buffarini Guidi, Mezzasoma, Ricci - tutti futuri ministri - e il generale Graziani. Da lì si diressero a Castrocaro, per una riunione plenaria nell'Albergo delle Terme. Un simile spiegamento di forze suscitò l'immediato interesse dei giovani partigiani. Corbari approntò un piano d'attacco: il nemico non poteva sapere della loro esistenza, in quei giorni non si aspettava certo di dover affrontare un gruppo armato di notevole consistenza, e l'elemento sorpresa poteva produrre il risultato sperato. Ma ancora una volta vennero frenati dai temporeggiamenti dei dirigenti politici, nonché dall'indecisione degli ex militari che consideravano la formazione partigiana impreparata e male addestrata. Non avevano tutti i torti, ma Corbari era convinto - e le successive azioni intraprese gli avrebbero dato ragione - che 1'attacco fosse attuabile, considerando l'esigua presenza di soldati e la loro ancora scarsa determinazione, con la Repubblica Sociale appena nata e quindi priva di strutture efficienti sul campo. Tra infuocate discussioni e molte incertezze, arrivò la notizia che Mussolini e i suoi gerarchi avevano lasciato Castrocaro. Corbari propose di organizzare un altro attacco, a Rocca delle Camminate, dove il 29 settembre 1943 si sarebbe tenuta la prima riunione del Consiglio dei Ministri.della neonata RSI. Ma si perse tempo anche in questo caso. E il risultato fu la disgregazione del gruppo, minato dalla discordia prima che entrasse in azione.
Corbari decise che da lì in avanti non avrebbe più preso ordini da nessuno, e costituì una banda per conto suo, una decina di uomini legati da profonda amicizia che sarebbero arrivati a trenta alla fine dell'anno.

Lettera di Silvio Corbari ad un amico
“Caro amico, (…) ti faccio noto che (…) sono disposto a collaborare con tutti i partiti antifascisti. Con tutti i buoni italiani che oggi si sentono in dovere di impugnare le armi e di finirla con le chiacchiere. In quanto poi alle mie idee politiche ti dirò che (…) ora sento soltanto il bisogno di lottare contro il comune nemico che è il Tedesco e il Fascista.
Domani eliminate queste due razze il fascismo ed il nazismo lotterò per il mio ideale. (il Comunismo)
Saluti Silvio Corbari”

La svolta di Salerno
Il CLN assunse una posizione critica anche verso la monarchia (corresponsabile della dittatura e della guerra) e verso il governo Badoglio di cui veniva chiesta la sostituzione.
Il contrasto tra il CLN e il Governo del Sud venne superato da un’iniziativa a sorpresa del leader comunista Palmiro Togliatti che, sbarcato a Salerno alla fine di Marzo del 1944 dopo quasi vent’anni di esilio, si dichiarò favorevole ad accantonare i contrasti istituzionali ponendo come prioritaria la lotta contro i nazifascisti.

Beghe da politicanti
Qualcuno ha definito "comunismo romantico" l'ideale politico di Corbari - e a quei tempi c'era chi dava all'aggettivo una valenza profondamente dispregiativa e, in ogni caso, lui non voleva avere nulla da spartire con il PCI né con qualsiasi altro partito. Ben presto il suo atteggiamento venne considerato, nel migliore dei casi, "immaturo" e "avventurista", perché non sopportava condizionamenti di sorta e ipocrisie, quelle che definiva "beghe da politicanti".

Corbari a Faenza
Nell'agosto del 1943, Silvio si compromise definitivamente, picchiando un noto fascista soprannominato Pipò, famigerato squadrista responsabile di innumerevoli pestaggi e punizioni a base di olio di ricino. Proprio ricordandogli a quanti poveracci aveva rivoltato le viscere, tentò di fargli ingoiare niente meno che un ombrello... Pipò ne uscì vivo grazie agli stessi amici di Silvio, che lo fermarono prima che l'ombrello sfondasse la trachea del malcapitato.

L'attentato al monumento del generale Pasi
All’inizio del Viale della Stazione Silvio e i sui compagni avevano piazzato un ordigno scatenando l'allarme generale, con tanto di artificieri fatti accorrere da Bologna: disinnescandolo, si era scoperto che si trattava di una bomba... caricata a pasta e fagioli.

L’elemosina
Corbari scrisse al segretario del fascio di Faenza, invitandolo a incontrarsi con lui in una chiesa della città, ambedue soli e senz’armi. Il gerarca accettò, si recò alla chiesa armato e con la compagnia di numerosi fascisti. Il segretario del fascio entrò nella chiesa ma vi trovò solo un vecchietto che gli chiese l'elemosina ed egli gli regalò dieci lire. Poi se ne andò tutto tronfio, deluso per il disegno sventato ma felice di poter proclamare che il famoso Corbari aveva avuto paura.
Qualche giorno dopo il segretario ricevette una busta con dentro le sue dieci lire, e un biglietto: “Ti rendo le dieci lire che mi hai generosamente donato, ma sappi che io ti ho regalato la vita”.

Un affronto al ritratto di Mussolini
Una volta Corbari affrontò rischi ancora maggiori per provocare i “nemici invincibili”, ma aveva un preciso moti­vo: dopo uno scontro a fuoco nei pressi di San Giorgio in Cepparano, alcuni miliziani delle Brigate Nere tornati a Faenza avevano divulgato la notizia che Corbari era rimasto ucciso. E un giornale locale l’aveva pubblicata con grande risalto. Occorreva smentirla nel modo più inequivocabile e rapido. Così la domenica successiva, indossando la divisa della Guardia Nazionale Repubblicana, Corbari scese a Faenza, attraversò la piazza principale nell'ora di maggiore affollamento, entrò nel bar Sangiorgi e si fece largo fino al bancone, ordinando un caffé. Ben presto lo riconobbero tutti. Bevve lentamente il suo caffé, fissando i presenti negli occhi uno per uno. Poi andò verso la parete dove campeggiavano i ritratti di Mussolini e del gerarca ravennate Ettore Muti. Li staccò, gettandoli a terra con disprezzo. E dopo averci sputato sopra, uscì con estrema calma. Tre soldati si precipitarono fuori, ma Corbari, fermo in mezzo alla strada, spianò il mitra contro di loro, che si buttarono al riparo. Quindi salì sull'auto di un compagno che era venuto a prenderlo.

Sull’Appennino
La banda effettuò un rastrellamento di munizioni nelle caserme attraverso azioni di guerriglia (dall’8 Ottobre ‘43 al 12 Dicembre ‘43) a Rocca San Casciano, Tredozio, San Benedetto in Alpe, Bocconi, Bagnacavallo, Portico, Premilcuore, Medicina di Bologna, Brisighella, Riolo Terme, Castrocaro, Castelbolognese, Russi, Lugo, Solarolo, Ponte della Castellina, Borgo di Faenza (Corbari si recò nella casa natia per salutare la famiglia. Uscendo di casa si imbatté in due militi della GNR, tolse loro le armi e li fece correre verso il centro della città cantando a squarciagola “Giovinezza”).




 

 

Uccidere per necessità?
La notte di sabato 5 Febbraio 1944 tornò a Faenza per partecipare a una riunione segreta del CLN, dove emersero ancora una volta i contrasti tra lui e i vertici del Comitato, conclusasi all'alba di lunedì 7 Febbraio 1944. Corbari si allontanò attraversando il centro a piedi; dopo corso Saffi si apprestava a imboccare il ponte quando incrociò un tenente della GNR, che purtroppo lo conosceva benissimo. La mano dell'ufficiale fascista scattò verso la fondina e impugnò la pistola, Corbari fece altrettanto: fu più svelto, di appena un istante, o forse più preciso, o soltanto più fortunato. Echeggiarono alcuni colpi nel silenzio. Il tenente rimase sul selciato e Corbari raggiunse i sentieri tra le colline.
Ricordando gli uomini morti per mano sua : “Non mi piaccio di contarli, anzi, cerco di dimenticarli. Non è un piacere per me uccidere, ma una necessità”.

 
Dal memoriale di don Antonio Vespignani, parroco di San Savino di Modigliana:

“Il 5 Gennaio 1944 un certo Francesco accompagnò Corbari a casa mia; parlai a lungo con lui. Poi ebbi un più lungo colloquio, dalle sette di sera alle cinque di mattina. Stando ai suoi discorsi posso affermare che non voleva odio ne vendetta, ma giustizia. Diceva: “Noi ci armiamo per difenderci da quelli che ci cercano a morte, e cerchiamo di aiutarci tra di noi e agire con sincerità e coscienza in tutto e per tutto (…). Noi ci armiamo non solo per difenderci, ma anche per fare buone azioni; qualche volta ne potranno venire anche delle non buone da persone prepotenti e ignoranti che ci sono anche tra noi, ma queste cose sono inevitabili durante la formazione di una coscienza nuova”.

 Chiesa di San Savino e casa colonica

Violenza nella guerra civile
Le testimonianze di molti partigiani mostrano tutto il dramma di un esperienza scelta consapevolmente, ma vissuta come tragica necessità alla quale si fa fronte pensando soprattutto ad un futuro migliore.
Nelle testimonianze non si riscontra alcuna mistica della guerra. Ciò che caratterizza la guerra partigiana è la piena responsabilità di coloro che vi partecipano.
Se per i nazifascisti la violenza e la morte erano un valore, tra i resistenti la violenza apriva non facili conflitti di coscienza.
La violenza, dunque, non è più anonima come nella moderna guerra tecnologica, ma investe in pieno l’individuo.

 Iris Versari
(Portico di Romagna, 12 dicembre 1922 – Ca' Cornio di Tredozio, 18 agosto 1944)

 
Iris, figlia di Angelo Versari e Alduina Calcini,  nacque a San Benedetto in Alpe, nell'Appennino tosco-romagnolo da una povera famiglia contadina. Per necessità economiche lavorò a servizio da alcune famiglie benestanti di Forlì.
Iris prende coscienza della vita in città, dello sfruttamento degli operai, specie quello delle donne. Si rende conto, delle difficoltà che le donne incontrano nel procurare qualcosa da mangiare per i figli, a causa dei miseri salari e dei notevoli aumenti dei prezzi.


Le umiliazioni come domestica e le ingiustizie subite, soprattutto come donna, unite alle idee socialiste che aveva coltivato in famiglia, spinsero Iris ad abbracciare la causa che combatteva contro ogni violenza e sopruso contro i padroni, i fascisti e le autorità.
Sentiva sempre più crescere in se quei valori di giustizia, libertà e solidarietà che il padre le aveva trasmesso.
“Il ritmo di vita di Iris fu scandito tra le fatiche dei campi e tra le faccende domestiche e ciò le precluse tutte le semplici vanità e le frivolezze che sono la suprema aspirazione delle donne. Tutto questo non le aveva permesso di coltivare amicizie, non aveva provato le blandizie e prime tenerezze amorose” (Dalmonte).
La sua famiglia si spostò successivamente in Val Capra, fra Rocca San Casciano e Tredozio; seguì poi intorno al ‘42 il trasferimento nella località Fabbriche di Tredozio, presso un podere detto Tramonto dove Iris decide di rimanere dopo l’8 settembre interrompendo il lavoro di domestica a Forlì.




 

All’indomani dell’8 settembre 1943, Iris divenne staffetta di un gruppo di ribelli, capeggiato da ex prigionieri di guerra slavi, che era stato ospitato nella stessa casa della sua famiglia.
Verso la fine di novembre, i due gruppi partigiani, quello Faentino di Corbari e quello sorto intorno alla località Fabbriche di Tredozio, si fusero e, decisero di stabilirsi a Ca’ Morelli, un podere disabitato, a circa due chilometri di strada da Tramonto.
Chi l'ha conosciuta, l'ha descritta come una donna capace di profonda, disarmante tenerezza, e al tempo stesso di una glaciale determinazione, premurosa nei rari momenti di quiete, efficiente nell'azione, dotata di un coraggio naturale, istintivo, libera dal bisogno di dover dimostrare niente a nessuno.


Podere Tramonto

Repubblica di Tredozio: 9 - 20 Gennaio 1944
Corbari con circa una trentina di uomini assalta verso la mattina la caserma dei carabinieri e il presidio militare fascista di Tredozio, senza colpo ferire. Ha occupato il paese che terrà per una decina di giorni, prima che i fascisti possano organizzare una caccia spietata al giovane meccanico faentino.

Il comandante si insedia in comune dove distrugge i registri delle tasse e le liste della leva; chiede contributi ai ricchi e distribuisce ai poveri il grano e altri generi alimentari requisiti e ammassati dai fascisti.

 

 

 

I partigiani che non erano impegnati a mantenere l’occupazione di Tredozio rimanevano nascosti alla base di Ca’ Morelli, dove all’alba del 20 gennaio sono sorpresi dai nazifascisti.

Si consumerà un furioso combattimento (cento contro una ventina) nel quale diversi partigiani della banda resteranno uccisi o fatti prigionieri e poi condannati.




 

Ca’ Morelli

Una settimana dopo l’episodio di Ca’ Morelli i nazifascisti, con l’intento di catturare Corbari mettono in atto un rastrellamento prendendo di mira la frazione Fabbriche di Tredozio che ospita Iris e la sua famiglia: i fratelli saranno costretti a trentacinque giorni di detenzione, il padre troverà la morte nel campo di concentramento di Landesberg Am Lech ( distretto di Buchenwald) e la madre patirà nel campo di concentramento di Dachau per poi ritornare a Giugno del 1945 e apprendere dell’eroica morte della figlia. Iris sfugge al rastrellamento scappando da una finestra.

 

Compagni di lotta e di vita
La morte e la cattura dei venti partigiani a Ca’ Morelli e l’arresto dell’intera famiglia Versari colpirono duramente Silvio e Iris nei loro affetti più cari: l’uno per il senso di colpa e il rammarico di non aver saputo proteggere i suoi compagni, l’altra per il tormento di dubbi, rimorsi, paure dopo la fuga.
Iris e Silvio si erano incontrati per la prima volta verso la fine di Novembre del 1943, grazie alla fusione dei due rispettivi gruppi partigiani di cui i giovani facevano parte.
I rapporti tra Silvio e la moglie si erano rarefatti, e non poteva essere altrimenti, dato che qualsiasi contatto poteva costare la vita a lei e al figlio, così come a qualsiasi altro familiare.
Con Iris divideva i rischi della sopravvivenza quotidiana, precaria e perennemente legata ad un filo; nessuno dei due si chiedeva quanto potesse durare e cosa avrebbero fatto il giorno, se mai fosse arrivato, in cui la fine della guerra avrebbe significato il ritorno a una normalità sconosciuta, da reinventare. Vivevano in un presente fatto di solidarietà e sacrifici, cuore in gola e adrenalina, combattimenti fulminei e spostamenti continui.

 Nacque tra i due compagni di lotta un rapporto basato sull’intesa, sulla stima, sull’ammirazione reciproca per la loro determinazione e il loro coraggio. Quella vita da ribelli, quei pericoli affrontati insieme da compagni di lotta, quei dolori, quei combattimenti, quelle piccole gioie, quelle idee di libertà e giustizia che li accomunavano, li portarono pian piano verso lo sbocciare di un rapporto di rispetto, di considerazione e di ammirazione, che sfociò, nell’incertezza del domani, verso un sentimento di amore reciproco che un tragico destino soffocò dopo pochi mesi.

Nuovi arrivi nella banda
Nella primavera del 1944 affluirono tra le file della banda Corbari numerosi ragazzi renitenti alla leva: parecchi giovani si arruolarono nelle formazioni partigiane che agivano in quel territorio. Il governo repubblichino stava per chiamare alle armi anche i ragazzi della classe 1926 e chi non si presentava era condannato a morte per fucilazione.
Nella banda Corbari, dopo l’arrivo dei nuovi “ribelli”, furono formate otto squadre (poi 16), ciascuna con un capo e una propria sede. Si organizzarono diverse azioni con il sostegno e l’aiuto di tanta gente delle campagne e dei paesi anche se il pericolo di delatori e di spie era in ogni momento sempre in agguato, soprattutto a causa della ricca taglia che pendeva sulla testa di “Curbera” (30.000 Lire).
 “I compagni venivano chiamati con nomi di battaglia per evitare rappresaglie fasciste contro le rispettive famiglie (…) solo alcuni di noi erano a conoscenza dei nomi veri” (Dalmonte)

 

Adriano Casadei
(Poviglio - Reggio Emilia 1922 - Castrocaro 18 agosto 1944)

Tra i nuovi giovani che si unirono alla banda ci fu anche Adriano Casadei, un ventiduenne di Forlì, studente, e promettente lanciatore di martello. Diventò ben presto uno dei comandanti più efficienti ed ascoltati nonché amico fraterno di Silvio.

Si capivano al volo: un’occhiata, un cenno, e via. Due caratteri diametralmente opposti, che si compensavano a vicenda, entrambi coscienti che l’altro era la parte mancante della coppia.

Impulsivo e audace Corbari, dotato di un carisma trascinante, riflessivo e freddo Casadei, dal carattere schivo e poco propenso a mettersi in mostra.

Il primo sorrideva spavaldo nelle foto e in faccia alla morte, il secondo scrutava serio e cupo il mondo, diffidente, ma sempre pronto a condividere l’allegria del momento, la gioia di essere sopravvissuti malgrado tutto.

Casadei organizzava, studiava, osservava. Corbari agiva, colpiva, guidava all’attacco ma soprattutto riportava al riparo i compagni, costantemente preoccupato della vita altrui. Fu Casadei a ideare e condurre le imprese più riuscite da un punto di vista bellico, come il duro colpo inferto ai tedeschi sul monte Lavane.



La leggenda del camion fantasma
Con quattro compagni colse di sorpresa sei miliziani della GNR scesi da un autocarro per prelevare sacchi di grano. Dopo averli disarmati, Corbari li fece anche spogliare.
Indossate le loro divise, Corbari e compagni cominciarono cosi una lunga scorribanda nel faentino e nel forlivese a bordo del camion, arrivando infine nel casentino, in Toscana: nove caserme espugnate quasi senza colpo ferire, grazie al travestimento e al camion di servizio, più un numero imprecisato di posti di blocco tedeschi smantellati, ai quasi si avvicinavano salutando i camerati: offrivano sigarette, un sorso di vino, e quando la rilassatezza era al massimo... aprivano il fuoco nel mucchio, o, nel caso gli avversari fossero in pochi, li disarmavano mandandoli di corsa per i campi in mutande

In divisa da colonnello tedesco
Corbari si tolse la soddisfazione di girare per Faenza distribuendo saluti a braccio teso a fascisti e “commilitoni” nazisti, studiando qualche altra impresa.
Decise poi di spostarsi in Toscana, fino al Mugello, dove assaltò varie caserme e annientò alcuni presidi della Wermacht.
Erano azioni che miravano soprattutto a ottenere effetti eclatanti - oltre che a procurarsi armi e munizioni -, per dimostrare alle giovani leve della Resistenza, ai ragazzi attirati dalla lotta partigiana che la tanto declamata libertà poteva essere conquistata: quando poteva, Corbari evitava di spargere sangue, perché considerava più importante la "propaganda dei fatti" che non uno stillicidio di uccisioni.

Marzo 1944 (Il maiale)
Dopo aver occupato il paese di Tredozio per ben tre volte, cacciandone la guarnigione della GNR e, nel primo caso, resistendo per undici giorni, i fascisti vi concentrarono un grosso contingente, oltre alle truppe tedesche dislocate nella zona, per garantirsi il controllo dell'importante via di comunicazione con la Toscana.
Corbari arrivò ad avvisare ufficialmente il comando della milizia che si sarebbe recato in paese in un giorno preciso. Allarme generale, con ulteriore richiesta di rinforzi, strade bloccate, pattuglie ovunque... Ma l’unico a presentarsi a Tredozio fu un anziano contadino, piuttosto malconcio e lacero, che si trascinava dietro un maiale legato a una corda. Giunto sulla porta dell'osteria, salutò i miliziani presenti chiedendo gentilmente se potevano reggere la corda e tenergli il maiale il tempo di bersi un bicchiere di vino.
All'uscita riprese il maiale e ringraziò i militi per la loro gentilezza e poi scrisse al loro comandante un biglietto con cui lo informava che i suoi uomini non erano buoni ad altro che badare il suo maiale.

Il falso pentimento e l’uccisione del Console Marabini
Corbari, Iris e Otello, un altro giovane partigiano, partecipano all’azione che vede l’uccisione del console della milizia Marabini, comandante provinciale della GNR di Forlì, che si era macchiato di efferati delitti nella caccia di sbandati, renitenti alla leva e partigiani. Corbari ed Iris avevano architettato ed inscenato un pentimento e una finta resa, concordando il loro passaggio tra le file repubblichine. Il capo dei ribelli sarebbe stato posto al comando di una legione di camicie nere mentre la giovane donna avrebbe avuto un posto di rilievo nella Croce Rossa. L’incontro avvenne presso il podere Castellina, a pochi chilometri da Rocca San Casciano.
Iris, come già aveva iniziato Silvio, recita la parte della donna stanca di lottare in una causa in cui non crede più, perciò spiega al gerarca che ora cerca si la resa, ma la vuole ottenere alle condizioni più favorevoli.
Verso le otto di sera i tre partigiani salgono, assieme al gerarca fascista, in una “Lancia Augusta” condotta da una milite. Il gerarca e i tre “partigiani pentiti”, secondo gli accordi, dovevano raggiungere Mussolini che si trovava a Rocca delle Camminate e poi Forlì dove i partigiani sarebbero stati presentati al generale tedesco, comandante della piazza, che subito avrebbe avviato le pratiche atte a dare nuove identità a Iris e Corbari. L’automobile parte in direzione di Dovadola poi, appena oltrepassa la frazione di Pieve Salutare di Castrocaro, l’autista svolta verso Predappio e si ferma. Iris e Silvio si lanciano uno sguardo d’intesa dopo che la giovane partigiana estrae, con un gesto fulmineo, la rivoltella che aveva abilmente nascosto sotto i vestiti, e la passa al suo compagno seduto al centro. Corbari senza esitare, spara un colpo a bruciapelo alla nuca del console che si trova seduto davanti.

Iris rapina Modigliana
Il 28 maggio 1944 Iris, armata di mitra, prelevò 80.000 Lire dalla Cassa di Risparmio.
L'11 giugno ci tornarono, ma stavolta la banca era sbarrata: Iris andò direttamente a casa del cassiere, lo "convinse" a trovare le chiavi della cassaforte, e la svuotò di 10.150 lire, senza trascurare di rilasciargli una ricevuta.
Ogni volta che occupavano un centro abitato dopo aver messo in fuga la guarnigione locale, Iris si dirigeva subito alla banca e la svaligiava, per poi dividere il bottino in parti uguali: una per le necessità del gruppo, l'altra da distribuire alle famiglie contadine più povere.
Il mitra di Iris era stato un "regalo" di Corbari: impugnatura arabescata, canna decorata da incisioni a sbalzo, dimensioni molto contenute.  Quel mitra maledetto si sarebbe vendicato, diventando il punto di partenza per una concatenazione di eventi sfortunati, neanche conservasse l'anima fascista di chi lo aveva creato e voluto così com'era.

L’aviolancio del Monte Lavane
Corbari chiede aiuto a Tonino Spazzoli che con “Radio Zella” e assieme all’O.R.I. (Organizzazione Resistenza Italiana) lancia pressanti appelli agli alleati i quali decidono per un lancio di viveri e armi, sull’altopiano del Lavane, la notte tra il 10 e l’11 luglio 1944. Le casse appese ai paracadute comprendevano anche materiale esplosivo che venne nascosto in una capanna (a lato). I quattro passaggi consecutivi dell'aereo da trasporto erano stati notati dai tedeschi: cinque colonne formate da SS e truppe scelte degli Alpen Jager avanzavano verso il monte Lavane.
Casadei intenzionato a far saltare l’esplosivo, dopo aver piazzato detonatore e miccia si accorse di non avere i fiammiferi e decise di lanciarci dentro una bomba a mano, dicendo: "O riesce o ci resto secco".

 

Capanna del Partigiano (1165m)

In quell'istante “il Bello” gli passò un cerino con cui accendere la miccia: questa azione provvidenziale impedì a Casadei un gesto suicida. I soldati tedeschi, credendola ancora occupata, circondarono la capanna raggruppandosi a centinaia tutt’intorno, poi un'esplosione spaventosa sembrò frantumare l'intera montagna, come se fosse un vulcano in eruzione, e persino i compagni che si allontanavano sul versante opposto vennero scaraventati qualche metro più in là dallo spostamento d'aria. Tra Alpen Jàger e SS, morirono circa duecento militari e altri centocinquanta rimasero feriti. Persino Radio Londra elogiò l'azione. Nessuno di loro poteva immaginare che tutto questo era opera del solo Adriano Casadei, aiutato da due compagni.

La Banda
I compagni venivano chiamati con nomi di battaglia (nomignoli) per evitare che i fascisti, conosciuti i nomi veri, mettessero in atto rappresaglie contro le loro famiglie. “Solo alcuni di noi erano a conoscenza dei nomi veri e possedevano l’elenco di tutti gli appartenenti alla formazione” (Dalmonte)

 
Lorenzo Casadio “Gallo
Ebro Drei “Bibì
Primo Palli “Primè”
Pino Bartoli “Maestro”
Giovanni Zanfini “Puccì”
Battista Casanova “e Babì”
Luigi Ceroni “il Dottore”
Francesco Bertoni “Uslì”
Luciano Roccalbegni “De Cinque”
Alfredo Nobili “il Bello”
Elio Ghiselli “Ferroviere”
Eleonoro Dalmonte “il Professore”
 

San Valentino di Tredozio Ottobre 1944
Partigiani del Battaglione «Corbari» in esercitazione.

 
Alcuni componenti della “Banda Corbari

Altri componenti: I Fratelli Spazzoli

Tonino un legionario di Fiume, mantenne i contatti con gli alleati. Catturato dalla Gestapo a Forlì venne sottoposto a interrogatori e spaventosi tormenti, ma resistette senza riferire ai nemici alcuna informazione sulla banda. Anche Arturo Spazzoli, che aveva tentato inutilmente di liberare il fratello, partecipò ad azioni clamorose: riuscì a raggiungere le linee alleate dopo aver liberato 27 militari inglesi.

Il sostegno dei parroci locali
Corbari ebbe più amici tra i sacerdoti che tra i dirigenti politici. Anzi, i secondi gli tributavano una stima a denti stretti e più di una volta criticarono aspramente il suo innato senso di indipendenza, accusandolo di “individualismo” e di essere un “anarchico”, quasi fosse un insulto.

Nella canonica di San Valentino, sui monti a nord di Tredozio, don Luigi Piazza (il prete con il mitra in mano) ospitava i partigiani della banda e rischiava la vita ogni giorno per procurare loro cibo e vestiario. Dopo la morte di Corbari, decise di unirsi definitivamente alla formazione.
Don Antonio Vespignani, parroco di San Savino, conobbe Corbari nel gennaio del 1944 e trascorse un'intera nottata a discutere di tutto: cosa si provas­se nel momento di dover uccidere, il tormento di fronte alla decisione di fucilare una spia, i sentimenti da sopprimere in nome di una guerra di liberazione che stava costando troppo sangue... “Provai un'immediata simpatia verso di lui, per la schiettezza e la sincerità e per i nobili ideali...”

Il silenzio della Chiesa
Molti parroci della zona si schierarono con i ribelli, in lacerante contrasto con il papato di Pio XII che taceva sulla persecuzione degli ebrei. Erano preti in crisi di identità nei confronti del Vaticano, che oltretutto alla fine del conflitto si prodigherà per favorire l'espatrio e garantire un sicuro e agiato rifugio ai gerarchi nazisti in America Latina... E scomodi anche per quella parte di mondo cattolico rappresentato dalla Democrazia Cristiana, fondata nel 1942, che soprattutto a Faenza rifiutava la lotta armata in nome di un opportunistico rifiuto della violenza.
I partiti tentarono in diverse occasioni, con crescente insistenza, di imporgli la presenza di commissari politici. Cominciarono i repubblicani, ai quali rispose: “Non voglio commissari che mi diano ordini, lottare per la libertà è l’unica cosa che conta per me oggi”. Poi ci provarono e riprovarono tutti gli altri, sempre più indispettiti dai suoi rifiuti: arrivarono in alcuni casi all'aperta ostilità, creando un pericoloso isolamento intorno alla formazione partigiana che, senza commissari politici, si attirava la diffidenza dei dirigenti di ogni partito, frustrati dall'impossibilità di imbrigliare “l’eretico” Corbari. A un certo punto smise di mostrarsi cortese e diplomatico, e all'ennesima richiesta di accettare i commissari, stavolta da parte del comandante della 36a Brigata Garibaldi, ri­spose seccamente: “Caro Bob, a te con quel nome possono mettere il collare che vogliono, a me no”.

Onestà e affetto verso la popolazione locale
Quando non disponevamo di mezzi finanziari, ricorrevamo a rilasciare buoni o regolari ricevute che dopo la guerra furono pagate, fino al centesimo, dai comandi alleati” (Dalmonte)

.

“A so Curbera”
“era generoso ma assolutamente indisciplinato (…) mi ha prestato 5 £ senza volerle dicendo: così ti ricorderai di me “ (Federico Laghi, fascista)

Insofferente a qualsiasi condizionamento o ordine calato dall'alto
“non voleva fare il militare” (Lina, la moglie)

Ribelle
Silvio Corbari era irruente e allegro, scanzonato e spregiudicato, ribelle fino a rasentare l'incoscienza. Ma sempre attento a non mettere a repentaglio la vita dei compagni: su questo era irreprensibile, al punto da intraprendere imprese solitarie quando i rischi sembravano eccessivi, ricorrendo ai travestimenti entrati nella leggenda.

Strategie militari
Nel mettere a punto i piani di attacco insieme ai compagni, sosteneva che occorrevano estrema violenza iniziale e velocità, per seminare il panico tra i nemici e ottenerne lo sbandamento, impedendo così loro di riorganizzarsi e reagire. La riuscita di un’azione dipendeva innanzitutto dalla sorpresa e dalla scelta del luogo, che doveva garantire massima libertà di movimento e di sganciamento, per ritirarsi immediatamente su posizioni difensive favorevoli. Strategie e tattiche di guerriglia che sembravano anticipare un'epoca: circa quindici anni più tardi, Ernesto Che Guevara avrebbe detto esattamente le stesse cose ai suoi uomini, probabilmente senza aver mai sentito parlare di un certo Silvio Corbari.

Il mito
La sua figura era circondata da un tale alone mitico che fiorirono ogni sorta di leggende intorno a certe sue clamorose imprese solitarie; eppure alcune, le più audaci, vennero realmente compiute, anche se con il tempo qualcuno ha pensato si trattasse di fantasie popolari.

Rossi il traditore
Arturo Spazzoli e Casadei si imbatterono nei pressi di Modigliana in un certo Franco Rossi, un giovane partigiano che sostenne di essere appena evaso dal carcere di Castrocaro.
Ottenuto un incontro con Corbari, a Ca’ Cornio, gli rivolse preghiere di accoglierlo nella sua banda, ed egli acconsentì. Nella stessa casa si erano momentaneamente rifugiati alcuni partigiani della banda, Iris e Franco Casadei. Durante la notte che trascorsero lì Rossi rubò il mitra a Iris per poi scappare e riferire ai fascisti dove si trovava la banda. Iris, intanto, si procurò un mitra sostitutivo (Sten) dal quale però, a causa di un difetto di fabbricazione, partì un colpo che la ferì alla gamba sinistra e che le impedì di lì in avanti di camminare.

Tornati alla casa, Arturo, Casadei e Corbari, che si erano allontanati per recuperare il Rossi di cui avevano capito le intenzioni, sapendo che per prudenza avrebbero dovuto abbandonare immediatamente quel posto, decisero di ripartire all'alba, dopo aver recuperato le forze.

Il tragico epilogo 
Alle prime luci dell'alba, Il casolare è completamente circondato, da un reparto scelto del Battaglione Mussolini e da un’intera compagnia della I Divisione Alpen Jager. Un manipolo di fascisti e militari tedeschi irrompe all'interno.
Un ufficiale nazista si affaccia nella camera di Silvio e Iris: lei ha già lo Sten in pugno, spara e lo uccide. Si scatena l’inferno: gli assedianti aprono il fuoco con mitragliatrici e mortai, la casa è sventrata dalle granate, porte e finestre si sbriciolano sotto le raffiche di grosso calibro, eppure dall’interno i partigiani continuano a rispondere colpo su colpo.
Corbari vorrebbe prendere in braccio Iris e scappare saltando giù per una scarpata dietro la casa, ma lei lo scongiura di lasciarla lì e tentare da solo: Silvio non sente ragioni. Allora Iris si uccide con un colpo di pistola, il gesto estremo per costringere Silvio a fuggire da solo.
Silvio, stravolto dalla disperazione, stringe per l'ultima volta Iris tra le braccia, le accarezza il viso, la bacia sulla bocca, e poi, urlando e sparando, si butta fuori dalla finestra al primo piano e rotola lungo la scarpata.


Facciata laterale di Ca Cornio: la finestra
in alto a sinistra è quella dalla quale Corbari
si è buttato.

Arturo Spazzoli ha attirato il fuoco su di sé: ha le gambe sfracellate e una vasta ferita al ventre. Pochi istanti dopo, durante la fuga, Corbari, ferito alle gambe, sfinito e inerte inciampa e precipita dall'argine del torrente, sbattendo la testa contro un masso. Adriano Casadei, che è ormai in salvo tra i cespugli, torna indietro e tenta di sorreggerlo: ma Silvio ha il cranio fratturato, se lo carica in spalla e raggiunge un piccolo avvallamento, dove adagia l'amico privo di conoscenza, rimanendo accanto a lui.
A scorgerli per primi sono gli Alpen Jager. Urla di trionfo, ordini secchi, risate isteriche. Adriano si alza in piedi e li guarda senza tradire alcuna emozione.

E’ finita
Franco Rossi si para davanti a Casadei, squadra soddisfatto Corbari, sdraiato a terra in una pozza di sangue, e dice mostrando il mitra di Iris: “Visto? Te l'ho riportato!”. Casadei lo fissa con disprezzo e mormora tra i denti: “Anche tu farai una brutta fine”.
I fascisti requisiscono un barroccio trainato dai buoi e ci caricano sopra Corbari svenuto e Arturo Spazzoli agonizzante. Casadei, le mani legate dietro la schiena, è costretto a seguirli a piedi. Dopo qualche chilometro, i fascisti finiscono a colpi di pistola Arturo, per non sentire più i suoi gemiti. Raggiunti i camion in sosta sulla strada, si dirigono a Castrocaro. 

LA MÖRT ED CURBERA

E prèm a caschê
e fo curbera
e par la bòta
o tremê la tëra
e o fo sobit sera
l’è bèl finì e’ su dé par na bangera

è bello finire la vita per una bandiera

 DULCEM ET DECORUM EST PRO PATRIA MORI Orazio

 
E cvànd che la prema sfója’d sôl
E quando la prima sfoglia di sole
la spôrbia d’ôr tota la campagna
spolvera d’oro tutta la campagna
e’partigiân e mör
il partigiano muore
Bsén a lô ôn pòpul’d cuntadén
Vicino a lui un popolo di contadini
o prega e o biastèma a tësta basa
prega e bestemmia a testa bassa
Sôra a lô na bânda d’asasén
Sopra di lui una banda d’assassini
la rid cun la vargôgna in faza
ride con la vergogna in faccia

(Giuseppe Bartoli)

La mattina del 18 agosto 1944
Silvio Corbari viene impiccato nella piazza del municipio di Castrocaro, senza aver ripreso conoscenza. Prima che il boia gli stringa il cappio intorno al collo, Adriano Casadei lo abbraccia e lo bacia per l'ultima volta. Un miliziano fascista lo colpisce con un manrovescio, spaccandogli un labbro. Quando tocca a Casadei, si mette il cappio da solo. Ma tirano la corda con eccessiva foga, e questa si spezza. Dopo qualche minuto, Casadei ripete la scena, e stringendosi il nodo scorsoio dice ad alta voce in dialetto romagnolo: "Siete marci anche nella corda!".
 Nel pomeriggio i corpi vengono trasferiti a Forlì e impiccati per la seconda volta, nella centralissima piazza Saffi, come monito per la cittadinanza. L’indomani decidono di appendere anche i cadaveri di Arturo Spazzoli e di Iris Versari.
Tonino Spazzoli, già prigioniero dei nazi-fascisti, viene portato la sera del 19 agosto in Piazza Saffi sotto il corpo penzolante del fratello; uno dei repubblichini presenti gli solleva il capo e gli dice: “lo riconosci? domani ci sarai pure tu!” E la promessa è mantenuta:è ucciso nei pressi di Coccolia, il suo paese natale, in un trasferimento a bordo di un furgone da Forlì a Ravenna durante un tentativo di fuga.
 Nella foto che ritrae Iris mentre penzola da un lampione - scalza, le gambe scoperte, i lunghi capelli che nascondono l'oltraggio del cranio sfondato con i calci dei fucili - si notano a poca distanza due uomini in uniforme che la guardano e ridono sguaiatamente. Sono loro il dettaglio osceno di quell'immagine impietosa.

Frustrazione e dolore
Nei giorni seguenti aeroplani tedeschi lanciano volantini inneggianti alla fine di Corbari e della Banda Corbari (come la chiamano loro) I partigiani superstiti si ricompongono sotto il comando di Romeo Corbari, e danno vita al “Battaglione Corbari”.

  
Romeo e Don Piazza

 

La terra racconta















Tutt’ora chi visita Ca Cornio ha la possibilità di conoscere la storia di Corbari grazie a dei pannelli illustrativi esposti in una bacheca esterna e in una ex legnaia (due targhe commemorative sono inoltre esposte sulla facciata).

MEDAGLIE ALLA MEMORIA AL VALOR MILITARE

Corbari Silvio
Comandante di un battaglione partigiano da lui stesso costituito, terrorizzava con attacchi improvvisi e di estrema audacia i presidi nazi-fascisti della Romagna, creando attorno a sé fama di leggendario eroe, inesorabile contro ogni prepotenza ed oppressione. Decine di colonne motorizzate nemiche furono da lui sbaragliate, caserme e reparti nazifascisti furono da lui disarmati e costretti alla resa, villaggi e paesi occupati e liberati. Ferito durante uno scontro contro forze preponderanti e catturato dal nemico, pagava col capestro il suo epico valore, concludendo la sua vita che fu simbolo di ogni ardimento e fiamma di amore per la Libertà e per la Patria ....

Adriano Casadei
Vicecomandante di battaglione partigiano, dopo innumerevoli azioni compiute alla testa dei suoi uomini con leggendaria audacia, dopo aver sbaragliato e disarmato decine di presidi fascisti e tedeschi, dopo aver infranto un attacco tedesco dando fuoco ad un deposito di esplosivi che nel tremendo scoppio seppellì oltre 200 nemici, veniva catturato mentre accorso vicino al suo comandante di battaglione, caduto ferito nel folto della mischia, tentava di portarlo in salvo. Sopportava fieramente torture e sevizie e nell’istante in cui il capestro stroncava la sua giovane esistenza, innalzava col grido di «Viva l’Italia », l’estremo inno alla Patria amata ....

Iris Versari
Giovane di modeste origini, poco più che ventenne, fedele alle tradizioni delle coraggiose genti di Romagna, non esitò a scegliere il suo posto di rischio e di sacrificio per opporsi alla tracotante oppressione dell'invasore, unendosi ad una combattiva formazione autonoma partigiana locale. Ardimentosa ed intrepida prese parte attiva a numerose azioni di guerriglia distinguendosi come trascinatrice e valida combattente. Durante l'ultimo combattimento, circondata con altri partigiani in una casa colonica isolata, ferita ed impossibilitata a muoversi, esortò ed indusse i compagni a rompere l'accerchiamento e, impegnando gli avversari con intenso e nutrito fuoco, agevolò la loro sortita. Dopo aver abbattuto l'ufficiale nemico che per primo entrò nella casa colonica, consapevole della sorte che l'attendeva cadendo viva nelle mani del crudele nemico, si diede la morte. Immolava così la sua giovane vita a quegli ideali che aveva nutrito nella sua breve ma gloriosa esistenza.”....

Antonio (Tonino) Spazzoli
Volontario della prima guerra mondiale, mutilato e pluridecorato al valor militare, fu nella guerra di Liberazione organizzatore audace, sereno e cosciente e diede vita e diresse formazioni partigiane fedeli continuatrici delle più fulgide tradizioni. I più audaci colpi di mano, i più rischiosi atti di sabotaggio, le più strenue azioni di guerriglia lo ebbero primo fra i primi, di esempio a tutti per coraggio, valore e sublime sprezzo del pericolo. Arrestato una prima volta e riuscito ad evadere si arruolava in un battaglione partigiano continuando senza sosta nella sua attività che mai dette tregua all’avversario. Caduto ancora nelle mani del nemico durante l’espletamento di una missione rischiosa affidata al suo leggendario coraggio, subiva sevizie atroci e martirii inenarrabili senza nulla rivelare che potesse tradire la causa. A compimento della sua eroica esistenza tutta dedicata alla Patria, cadeva sotto i colpi degli sgherri nemici che barbaramente lo trucidarono.

 Arturo Spazzoli
Medaglia d’argento al Valor militare alla memoria

 

Forlì
Epigrafe sulla facciata del Palazzo Comunale in Piazza Saffi, dettata da Aldo Spallicci:

Fra tirannia e libertà
fra dittatura e popolo
stanno
pietra di confine
le forche di
Silvio Corbari
Iris Versari
Adriano Casadei
Arturo Spazzoli

 

 

Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione.

Piero Calamandrei

 

Molto del materiale riportato in questo testo è stato tratto, elaborato e riassemblato dalla tesina dell’alunna Aurora Borioni VCs del Liceo scientifico Torricelli di Faenza a.s. 2007/2008

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