LA STORIA DELLA “BANDA CORBARI”
Ca’
Cornio
La casa si trova sull’Appennino Tosco Romagnolo tra odigliana e Tredozio.
Davanti alla casa, c’è ora uno spazio libero che all’epoca della seconda
guerra mondiale era occupato dall’aia e da Ca’ Cornio di Sopra, l’altro
casolare posto di fronte, di cui ora si notano pochi ruderi. Al centro
della facciata spicca la lapide posta nel 1962 dall’Associazione
Mazziniana Italiana per ricordare la tragica fine di quattro partigiani
ai quali sono state concesse medaglie d’oro al valore militare.
Ora la casa, di proprietà della provincia di Forlì-Cesena, è gestita
dall’Agesci (Associazione Scout Cattolici Italiani) di Modigliana.
La casa è meta di molte uscite di gruppi scout (comprende camere da
letto, cucina, camino, bagni).
Silvio Corbari
(Faenza, 10 gennaio 1923 – Castrocaro
Terme, 18 agosto 1944)
All’anagrafe
lo registrarono come Sirio Corbari, figlio di Domenico Corbari e Anna
Ciani. Verrà comunemente detto “Curbera”.
Quartogenito di una famiglia di cinque figli, Silvio crebbe a Faenza,
nel borgo Durbecco (casa natale a lato); fu proprio nel cortile e sul
campetto di pallone di Sant’Antonino, la chiesa attigua alla sua casa,
che conobbe il quasi coetaneo Adriano Casadei, suo futuro e fedele
luogotenente.
La famiglia, di modeste condizioni, poté garantirgli soltanto le scuole
elementari e l'avviamento professionale, benché il ragazzino
manifestasse una
grande passione per lo studio e
le letture. Poi la meccanica lo attirò più di ogni altro interesse,
e dopo l'apprendistato in fonderia trovò un lavoro in un’officina.
Intanto frequentava il teatro della parrocchia, dimostrando non solo
buone
doti di recitazione, ma
soprattutto un innato talento nei travestimenti: in seguito lo avrebbe
messo a frutto, rivelandosi capace di assumere le sembianze più
disparate con straordinaria disinvoltura e padronanza.
La compagnia filodrammatica “Berton”
di Faenza. La foto è stata scattata il 19 Marzo
1939 in occasione di una rappresentazione. Silvio recita nella parte di un prete, è l’ultimo
a destra
Contro la propria volontà (così riferisce la moglie
Lina) intraprese il servizio militare. Ben presto si sarebbe distinto
per l'avversione viscerale al fascismo, esponendosi pericolosamente.
A soli diciannove anni, sposò Lina Casadio, e la
coppia ebbe di lì a poco un figlio, Gian Carlo.
“Quando Silvio si rifiutava per la sua natura ribelle
e avversa al fascismo di partecipare alle gare ginniche dei preliminari,
e veniva per punizione regolarmente chiuso a chiave in una stanzetta al
primo piano di un edificio della piazza d’Armi, lei andava a parlargli
da sotto, dalla strada, per consolarlo.” (Carla Grementieri)
25 Luglio 1943: la caduta del Fascismo
La notte tra il 24
e il 25 Luglio 1943 il gran Consiglio del Fascismo votò a gran
maggioranza l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, che invitava
il re Vittorio Emanuele III ad assumere la guida del paese. Mussolini fu
arrestato nel pomeriggio del 25 Luglio e condotto in una prigione sul
Gran Sasso. Alla guida del paese fu nominato l’ex comandante delle forze
armate Pietro Badoglio.
8 Settembre 1943: inizia la guerra
civile
Il paese fu
attraversato da un’incontenibile ondata di esultanza, mentre il PNF e i
suoi attivisti furono del tutto incapaci di reagire. La notizia
dell’armistizio tra le forze italiane e quelle angloamericane, resa
pubblica l’8 Settembre, gettò l’Italia nel caos. Il re e il governo
fuggirono dalla capitale alla volta di Brindisi e, mentre le forze
angloamericane sbarcavano a Taranto e a Salerno, i reparti tedeschi
occupavano rapidamente l’Italia centrosettentrionale. L’esercito
italiano lasciato privo di istruzioni operative, si disgregò
rapidamente: alcuni militari ne approfittarono per indossare abiti
civili e uscire dal conflitto, altri subirono la rabbiosa reazione
tedesca (come a Cefalonia, dove 1.300 uomini della divisione Aqui
resistettero ai tedeschi; i sopravvissuti,oltre 5.000, furono fucilati
per ordine di Hitler).
La linea Gotica: ultimo baluardo
Dopo la firma
dell’armistizio tra il governo Badoglio e le forze alleate i Tedeschi si
preparano a contrastare l’avanzata anglo-americana verso il Nord Italia.
Mentre a sud si fortificava la linea Gustav, a nord di Firenze, il
comando della Wehrmacht iniziò a localizzare i punti strategici intorno
ai quali allestire l’ultimo baluardo a difesa della Val Padana che, se
superata, avrebbe permesso agli alleati di raggiungere facilmente la Germania. Le armate
naziste, spinte verso nord dalle truppe alleate che erano sbarcate in
Sicilia, si attestarono, come ultimo baluardo, sulla linea gotica
(chiamata anche linea verde). Era una linea difensiva che tagliava
l’Italia in due, da Pesaro-Rimini a Forte dei Marmi-Viareggio-Massa; una
fascia, dunque, che attraversava in pieno anche
la Romagna
scavalcando tutto l’Appennino tosco-romagnolo.
Decine di migliaia
di operai italiani e prigionieri dei tedeschi, di diversa nazionalità,
approntarono una robusta rete di fortificazioni che andava
dall’Adriatico al Tirreno per oltre 300 chilometri. Si
costruirono bunker per l’artiglieria, fortini e trincee, fossati
anticarro, campi minati e reticolati, mentre lungo la riviera romagnola,
per prevenire sbarchi navali, si approntarono strutture di ferro e
cemento armato.
La resistenza in Italia e a Faenza
Nei giorni
successivi all’armistizio, i rappresentanti dei partiti antifascisti
(ricostituitisi già prima del crollo del regime) avevano creato un
Comitato di Liberazione Nazionale. Vi presero parte esponenti del
Partito Comunista, del Partito Socialista, del Partito Liberale e del
Partito Repubblicano, a cui si unirono nuove formazioni politiche come
il Partito d’Azione e la Democrazia Cristiana.
Il CNL
temporeggiava, invitando i giovani a non esporsi e a restare in attesa
di ordini.
Anche a livello
locale i partiti antifascisti sembravano colpiti da improvvisa paralisi:
il PC Faentino, nonostante l'attivismo antagonista manifestato nel
ventennio, e malgrado le diverse direttive del partito a livello
nazionale, dopo l'8 settembre assunse un atteggiamento opportunista:
arrivò a concordare una sorta di armistizio separato con i fascisti,
impegnandosi a non ingaggiare la lotta armata in cambio della garanzia
che i suoi dirigenti e militanti più conosciuti non sarebbero stati
arrestati. E il PSI si adeguò, legato ai comunisti da un patto di
alleanza.
Giovani Faentini
Dopo l’8 Settembre
Silvio Corbari decise di armarsi e organizzare la Resistenza sui monti.
Insieme ad altri
giovani stanchi di sentirsi dire "abbiate pazienza", il 9 settembre del
1943 Corbari iniziò fin dall'alba a rastrellare armi e munizioni nelle
caserme abbandonate dai soldati allo sbando. Una settimana dopo le
truppe tedesche entrarono a Faenza, e il suo gruppo, una ventina di
partigiani in tutto, prese la via della montagna. Ma ben presto altri li
raggiunsero, compresi alcuni ex ufficiali dell'esercito italiano, e la
loro "banda" arrivò a sessanta uomini organizzati in due compagnie. Una
di queste, la "formazione
partigiana del Samoggia", contava sette mitragliatrici pesanti e
diciassette leggere, un centinaio di moschetti più altrettante casse di
munizioni e bombe a mano.
Fallisce l’attentato al Duce
Liberato dal
colonnello Otto Skorzeny che lo prelevò dalla prigione sul Gran Sasso,
Mussolini si recò a Monaco dove proclamò la Repubblica Sociale
Italiana e quindi tornò in Italia, precisamente all'aeroporto di Forlì,
il 23 settembre 1943. Lo accolsero numerosi gerarchi, tra i quali
Pavolini, Buffarini Guidi, Mezzasoma, Ricci - tutti futuri ministri - e
il generale Graziani. Da lì si diressero a Castrocaro, per una riunione
plenaria nell'Albergo delle Terme. Un simile spiegamento di forze
suscitò l'immediato interesse dei giovani partigiani. Corbari approntò
un piano d'attacco: il nemico non poteva sapere della loro esistenza, in
quei giorni non si aspettava certo di dover affrontare un gruppo armato
di notevole consistenza, e l'elemento sorpresa poteva produrre il
risultato sperato. Ma ancora una volta vennero frenati dai
temporeggiamenti dei dirigenti politici, nonché dall'indecisione degli
ex militari che consideravano la formazione partigiana impreparata e
male addestrata. Non avevano tutti i torti, ma Corbari era convinto - e
le successive azioni intraprese gli avrebbero dato ragione - che
1'attacco fosse attuabile, considerando l'esigua presenza di soldati e
la loro ancora scarsa determinazione, con la Repubblica Sociale
appena nata e quindi priva di strutture efficienti sul campo. Tra
infuocate discussioni e molte incertezze, arrivò la notizia che
Mussolini e i suoi gerarchi avevano lasciato Castrocaro. Corbari propose
di organizzare un altro attacco, a Rocca delle Camminate, dove il 29
settembre 1943 si sarebbe tenuta la prima riunione del Consiglio dei
Ministri.della neonata RSI. Ma si perse tempo anche in questo caso. E il
risultato fu la disgregazione del gruppo, minato dalla discordia prima
che entrasse in azione.
Corbari decise che
da lì in avanti non avrebbe più
preso ordini da nessuno, e costituì una banda per conto suo, una
decina di uomini legati da profonda amicizia che sarebbero arrivati a
trenta alla fine dell'anno.
Lettera di Silvio Corbari ad un amico
“Caro amico, (…) ti faccio noto che (…) sono
disposto a collaborare con tutti i partiti antifascisti. Con tutti i
buoni italiani che oggi si sentono in dovere di impugnare le armi e di
finirla con le chiacchiere. In quanto poi alle mie idee politiche ti
dirò che (…) ora sento soltanto il bisogno di lottare contro il comune
nemico che è il Tedesco e il Fascista.
Domani eliminate queste due razze il fascismo ed il
nazismo lotterò per il mio ideale. (il Comunismo)
Saluti Silvio Corbari”
La svolta di Salerno
Il CLN assunse una
posizione critica anche verso la monarchia (corresponsabile della
dittatura e della guerra) e verso il governo Badoglio di cui veniva
chiesta la sostituzione.
Il contrasto tra il
CLN e il Governo del Sud venne superato da un’iniziativa a sorpresa del
leader comunista Palmiro Togliatti che, sbarcato a Salerno alla fine di
Marzo del 1944 dopo quasi vent’anni di esilio, si dichiarò favorevole ad
accantonare i contrasti istituzionali ponendo come prioritaria la lotta
contro i nazifascisti.
Beghe da politicanti
Qualcuno ha
definito "comunismo romantico" l'ideale politico di Corbari - e a quei
tempi c'era chi dava all'aggettivo una valenza profondamente
dispregiativa e, in ogni caso, lui non voleva avere nulla da spartire
con il PCI né con qualsiasi altro partito. Ben presto il suo
atteggiamento venne considerato, nel migliore dei casi,
"immaturo" e "avventurista",
perché non sopportava condizionamenti di sorta e ipocrisie, quelle che
definiva "beghe da politicanti".
Corbari a Faenza
Nell'agosto del
1943, Silvio si compromise definitivamente, picchiando un noto fascista
soprannominato Pipò, famigerato squadrista responsabile di innumerevoli
pestaggi e punizioni a base di olio di ricino. Proprio ricordandogli a
quanti poveracci aveva rivoltato le viscere, tentò di fargli ingoiare
niente meno che un ombrello... Pipò ne uscì vivo grazie agli stessi
amici di Silvio, che lo fermarono prima che l'ombrello sfondasse la
trachea del malcapitato.
L'attentato al monumento del generale
Pasi
All’inizio del
Viale della Stazione Silvio e i sui compagni avevano piazzato un ordigno
scatenando l'allarme generale, con tanto di artificieri fatti accorrere
da Bologna: disinnescandolo, si era scoperto che si trattava di una
bomba... caricata a pasta e
fagioli.
L’elemosina
Corbari scrisse al
segretario del fascio di Faenza, invitandolo a incontrarsi con lui in
una chiesa della città, ambedue soli e senz’armi. Il gerarca accettò, si
recò alla chiesa armato e con la compagnia di numerosi fascisti. Il
segretario del fascio entrò nella chiesa ma vi trovò solo un
vecchietto che gli chiese
l'elemosina ed egli gli regalò dieci lire. Poi se ne andò tutto
tronfio, deluso per il disegno sventato ma felice di poter proclamare
che il famoso Corbari aveva avuto paura.
Qualche giorno dopo
il segretario ricevette una busta con dentro le sue dieci lire, e un
biglietto: “Ti rendo le dieci lire che mi hai generosamente donato, ma
sappi che io ti ho regalato la vita”.
Un affronto al ritratto di Mussolini
Una volta Corbari
affrontò rischi ancora maggiori per provocare i “nemici invincibili”, ma
aveva un preciso motivo: dopo uno scontro a fuoco nei pressi di San
Giorgio in Cepparano, alcuni miliziani delle Brigate Nere tornati a
Faenza avevano divulgato la notizia che Corbari era rimasto ucciso. E un
giornale locale l’aveva pubblicata con grande risalto. Occorreva
smentirla nel modo più inequivocabile e rapido. Così la domenica
successiva, indossando la divisa
della Guardia Nazionale Repubblicana, Corbari scese a Faenza,
attraversò la piazza principale nell'ora di maggiore affollamento, entrò
nel bar Sangiorgi e si fece largo fino al bancone, ordinando un caffé.
Ben presto lo riconobbero tutti. Bevve lentamente il suo caffé, fissando
i presenti negli occhi uno per uno. Poi andò verso la parete dove
campeggiavano i ritratti di Mussolini e del gerarca ravennate Ettore
Muti. Li staccò, gettandoli a terra con disprezzo. E dopo averci sputato
sopra, uscì con estrema calma. Tre soldati si precipitarono fuori, ma
Corbari, fermo in mezzo alla strada, spianò il mitra contro di loro, che
si buttarono al riparo. Quindi salì sull'auto di un compagno che era
venuto a prenderlo.
Sull’Appennino
La banda effettuò
un rastrellamento di munizioni nelle caserme attraverso azioni di
guerriglia (dall’8 Ottobre ‘43 al 12 Dicembre ‘43) a Rocca San Casciano,
Tredozio, San Benedetto in Alpe, Bocconi, Bagnacavallo, Portico,
Premilcuore, Medicina di Bologna, Brisighella, Riolo Terme, Castrocaro,
Castelbolognese, Russi, Lugo, Solarolo, Ponte della Castellina, Borgo di
Faenza (Corbari si recò nella casa natia per salutare la famiglia.
Uscendo di casa si imbatté in due militi della GNR, tolse loro le armi e
li fece correre verso il centro della città cantando a squarciagola
“Giovinezza”).
Uccidere per necessità?
La notte di sabato
5 Febbraio 1944 tornò a Faenza per partecipare a una riunione segreta
del CLN, dove emersero ancora una volta i contrasti tra lui e i vertici
del Comitato, conclusasi all'alba di lunedì 7 Febbraio 1944. Corbari si
allontanò attraversando il centro a piedi; dopo corso Saffi si
apprestava a imboccare il ponte quando incrociò un tenente della GNR,
che purtroppo lo conosceva benissimo. La mano dell'ufficiale fascista
scattò verso la fondina e impugnò la pistola, Corbari fece altrettanto:
fu più svelto, di appena un istante, o forse più preciso, o soltanto più
fortunato. Echeggiarono alcuni colpi nel silenzio. Il tenente rimase sul
selciato e Corbari raggiunse i sentieri tra le colline.
Ricordando gli
uomini morti per mano sua : “Non mi piaccio di contarli, anzi, cerco di
dimenticarli. Non è un piacere per me uccidere, ma una necessità”.
Dal memoriale di
don Antonio Vespignani,
parroco di San Savino di Modigliana:
“Il 5 Gennaio 1944
un certo Francesco accompagnò Corbari a casa mia; parlai a lungo con
lui. Poi ebbi un più lungo colloquio, dalle sette di sera alle cinque di
mattina. Stando ai suoi discorsi posso affermare che non voleva odio ne
vendetta, ma giustizia. Diceva: “Noi ci armiamo per difenderci da quelli
che ci cercano a morte, e cerchiamo di aiutarci tra di noi e agire con
sincerità e coscienza in tutto e per tutto (…). Noi ci armiamo non solo
per difenderci, ma anche per fare buone azioni; qualche volta ne
potranno venire anche delle non buone da persone prepotenti e ignoranti
che ci sono anche tra noi, ma queste cose sono inevitabili durante la
formazione di una coscienza nuova”.
Chiesa di San Savino e casa colonica
Violenza nella guerra civile
Le testimonianze di
molti partigiani mostrano tutto il dramma di un esperienza scelta
consapevolmente, ma vissuta come tragica necessità alla quale si fa
fronte pensando soprattutto ad un futuro migliore.
Nelle testimonianze
non si riscontra alcuna mistica della guerra. Ciò che caratterizza la
guerra partigiana è la piena responsabilità di coloro che vi
partecipano.
Se per i
nazifascisti la violenza e la morte erano un valore, tra i resistenti la
violenza apriva non facili conflitti di coscienza.
La violenza,
dunque, non è più anonima come nella moderna guerra tecnologica, ma
investe in pieno l’individuo.
Iris Versari
(Portico di Romagna, 12 dicembre 1922 – Ca' Cornio di Tredozio, 18
agosto 1944)
Iris, figlia di
Angelo Versari e Alduina Calcini,
nacque a San Benedetto in Alpe, nell'Appennino tosco-romagnolo da
una povera famiglia contadina. Per necessità economiche lavorò a
servizio da alcune famiglie benestanti di Forlì.
Iris prende
coscienza della vita in città, dello sfruttamento degli operai, specie
quello delle donne. Si rende conto, delle difficoltà che le donne
incontrano nel procurare qualcosa da mangiare per i figli, a causa dei
miseri salari e dei notevoli aumenti dei prezzi.
Le umiliazioni come domestica
e le ingiustizie subite, soprattutto come donna, unite alle idee
socialiste che aveva coltivato in famiglia, spinsero Iris ad abbracciare
la causa che combatteva contro ogni violenza e sopruso contro i padroni,
i fascisti e le autorità.
Sentiva sempre più
crescere in se quei valori di giustizia, libertà e solidarietà che il
padre le aveva trasmesso.
“Il ritmo di vita
di Iris fu scandito tra le fatiche dei campi e tra le faccende
domestiche e ciò le precluse tutte le semplici vanità e le frivolezze
che sono la suprema aspirazione delle donne. Tutto questo non le aveva
permesso di coltivare amicizie, non aveva provato le blandizie e prime
tenerezze amorose” (Dalmonte).
La sua famiglia si
spostò successivamente in Val Capra, fra Rocca San Casciano e Tredozio;
seguì poi intorno al ‘42 il trasferimento nella località Fabbriche di
Tredozio, presso un podere detto Tramonto dove Iris decide di rimanere
dopo l’8 settembre interrompendo il lavoro di domestica a Forlì.
All’indomani dell’8
settembre 1943, Iris divenne
staffetta di un gruppo di ribelli, capeggiato da ex prigionieri di
guerra slavi, che era stato ospitato nella stessa casa della sua
famiglia.
Verso la fine di
novembre, i due gruppi partigiani, quello Faentino di Corbari e quello
sorto intorno alla località Fabbriche di Tredozio, si fusero e, decisero
di stabilirsi a Ca’ Morelli, un podere disabitato, a circa due
chilometri di strada da Tramonto.
Chi l'ha
conosciuta, l'ha descritta come una donna
capace di profonda, disarmante
tenerezza, e al tempo stesso di una glaciale determinazione,
premurosa nei rari momenti di quiete, efficiente nell'azione, dotata di
un coraggio naturale, istintivo, libera dal bisogno di dover dimostrare
niente a nessuno.
Podere Tramonto
Repubblica di Tredozio: 9 - 20 Gennaio
1944
Corbari con circa
una trentina di uomini assalta verso la mattina la caserma dei
carabinieri e il presidio militare fascista di Tredozio, senza colpo
ferire. Ha occupato il paese che terrà per una decina di giorni, prima
che i fascisti possano organizzare una caccia spietata al giovane
meccanico faentino.
Il comandante si
insedia in comune dove distrugge i registri delle tasse e le liste della
leva; chiede contributi ai
ricchi e distribuisce ai poveri il grano e altri generi alimentari
requisiti e ammassati dai fascisti.
I partigiani che
non erano impegnati a mantenere l’occupazione di Tredozio rimanevano
nascosti alla base di Ca’ Morelli, dove all’alba del 20 gennaio sono
sorpresi dai nazifascisti.
Si consumerà un
furioso combattimento (cento contro una ventina) nel quale diversi
partigiani della banda resteranno uccisi o fatti prigionieri e poi
condannati.
Ca’ Morelli
Una settimana dopo
l’episodio di Ca’ Morelli i nazifascisti, con l’intento di catturare
Corbari mettono in atto un rastrellamento prendendo di mira la frazione
Fabbriche di Tredozio che ospita Iris e la
sua famiglia: i fratelli
saranno costretti a trentacinque giorni di detenzione, il padre troverà
la morte nel campo di concentramento di Landesberg Am Lech ( distretto
di Buchenwald) e la madre patirà nel campo di concentramento di Dachau
per poi ritornare a Giugno del 1945 e apprendere dell’eroica morte della
figlia. Iris sfugge al
rastrellamento scappando da una finestra.
Compagni di lotta e di vita
La morte e la
cattura dei venti partigiani a Ca’ Morelli e l’arresto dell’intera
famiglia Versari colpirono duramente Silvio e Iris nei loro affetti più
cari: l’uno per il senso di colpa e il rammarico di non aver saputo
proteggere i suoi compagni, l’altra per il tormento di dubbi, rimorsi,
paure dopo la fuga.
Iris e Silvio si
erano incontrati per la prima volta verso la fine di Novembre del 1943,
grazie alla fusione dei due rispettivi gruppi partigiani di cui i
giovani facevano parte.
I rapporti tra
Silvio e la moglie si erano rarefatti, e non poteva essere altrimenti,
dato che qualsiasi contatto poteva costare la vita a lei e al figlio,
così come a qualsiasi altro familiare.
Con Iris divideva i
rischi della sopravvivenza quotidiana, precaria e perennemente legata ad
un filo; nessuno dei due si chiedeva quanto potesse durare e cosa
avrebbero fatto il giorno, se mai fosse arrivato, in cui la fine della
guerra avrebbe significato il ritorno a una
normalità sconosciuta, da
reinventare. Vivevano in un presente fatto di solidarietà e
sacrifici, cuore in gola e adrenalina, combattimenti fulminei e
spostamenti continui.
Nacque tra i due
compagni di lotta un rapporto basato sull’intesa, sulla stima,
sull’ammirazione reciproca per la loro determinazione e il loro
coraggio. Quella vita da ribelli, quei pericoli affrontati insieme da
compagni di lotta, quei dolori, quei combattimenti,
quelle piccole gioie, quelle
idee di libertà e giustizia
che li accomunavano, li portarono pian piano verso lo sbocciare di un
rapporto di rispetto, di considerazione e di ammirazione, che sfociò,
nell’incertezza del domani, verso un sentimento di
amore reciproco che un
tragico destino soffocò dopo pochi mesi.
Nuovi arrivi nella banda
Nella primavera del
1944 affluirono tra le file della banda Corbari numerosi ragazzi
renitenti alla leva:
parecchi giovani si arruolarono nelle formazioni partigiane che agivano
in quel territorio. Il governo repubblichino stava per chiamare alle
armi anche i ragazzi della classe 1926 e chi non si presentava era
condannato a morte per fucilazione.
Nella banda
Corbari, dopo l’arrivo dei nuovi “ribelli”, furono formate otto squadre
(poi 16), ciascuna con un capo e una propria sede. Si organizzarono
diverse azioni con il sostegno e l’aiuto di tanta gente delle campagne e
dei paesi anche se il pericolo di delatori e di spie era in ogni momento
sempre in agguato, soprattutto a causa della ricca
taglia che pendeva sulla
testa di “Curbera”
(30.000 Lire).
“I compagni
venivano chiamati con nomi di battaglia per evitare rappresaglie
fasciste contro le rispettive famiglie (…) solo alcuni di noi erano a
conoscenza dei nomi veri” (Dalmonte)
Adriano Casadei
(Poviglio - Reggio Emilia 1922 - Castrocaro 18 agosto 1944)
Tra i nuovi giovani
che si unirono alla banda ci fu anche Adriano Casadei, un ventiduenne di
Forlì, studente, e promettente lanciatore di martello. Diventò ben
presto uno dei comandanti più efficienti ed ascoltati nonché amico
fraterno di Silvio.
Si capivano al volo:
un’occhiata, un cenno, e via. Due caratteri diametralmente opposti, che
si compensavano a vicenda, entrambi coscienti che l’altro era la parte
mancante della coppia.
Impulsivo e audace
Corbari, dotato di un carisma trascinante, riflessivo e freddo Casadei,
dal carattere schivo e poco propenso a mettersi in mostra.
Il primo sorrideva
spavaldo nelle foto e in faccia alla morte, il secondo scrutava serio e
cupo il mondo, diffidente, ma sempre pronto a condividere l’allegria del
momento, la gioia di essere sopravvissuti malgrado tutto.
Casadei organizzava,
studiava, osservava. Corbari
agiva, colpiva, guidava all’attacco ma soprattutto riportava al
riparo i compagni, costantemente preoccupato della vita altrui. Fu
Casadei a ideare e condurre le imprese più riuscite da un punto di vista
bellico, come il duro colpo inferto ai tedeschi sul monte Lavane.
La leggenda del camion fantasma
Con quattro compagni colse di sorpresa
sei miliziani della GNR
scesi da un autocarro per prelevare sacchi di
grano. Dopo averli disarmati,
Corbari li fece anche spogliare.
Indossate le loro
divise, Corbari e compagni cominciarono cosi una lunga scorribanda nel
faentino e nel forlivese a bordo del camion, arrivando infine nel
casentino, in Toscana: nove caserme espugnate quasi senza colpo ferire,
grazie al
travestimento e al camion di servizio,
più un numero
imprecisato di posti di blocco tedeschi smantellati,
ai quasi si avvicinavano salutando i
camerati: offrivano sigarette,
un sorso di vino, e quando la rilassatezza era al
massimo... aprivano il fuoco nel
mucchio, o, nel caso gli avversari fossero in pochi, li
disarmavano mandandoli di corsa per i campi in mutande
In divisa da colonnello tedesco
Corbari si tolse la
soddisfazione di girare per Faenza distribuendo saluti a braccio teso a
fascisti e “commilitoni” nazisti, studiando qualche altra impresa.
Decise poi di
spostarsi in Toscana, fino al Mugello, dove assaltò varie caserme e
annientò alcuni presidi della Wermacht.
Erano azioni che
miravano soprattutto a ottenere effetti eclatanti - oltre che a
procurarsi armi e munizioni -, per dimostrare alle giovani leve della
Resistenza, ai ragazzi attirati dalla lotta partigiana che la tanto
declamata libertà poteva essere conquistata: quando poteva, Corbari
evitava di spargere sangue, perché considerava più importante la "propaganda
dei fatti" che non uno stillicidio di uccisioni.
Marzo 1944 (Il maiale)
Dopo aver occupato
il paese di Tredozio per ben tre volte, cacciandone la guarnigione della
GNR e, nel primo caso, resistendo per undici giorni, i fascisti vi
concentrarono un grosso contingente, oltre alle truppe tedesche
dislocate nella zona, per garantirsi il controllo dell'importante via di
comunicazione con la
Toscana.
Corbari arrivò ad
avvisare ufficialmente il comando della milizia che si sarebbe recato in
paese in un giorno preciso. Allarme generale, con ulteriore richiesta di
rinforzi, strade bloccate, pattuglie ovunque... Ma l’unico a presentarsi
a Tredozio fu un anziano contadino, piuttosto malconcio e lacero, che si
trascinava dietro un maiale legato a una corda. Giunto sulla porta
dell'osteria, salutò i miliziani presenti chiedendo gentilmente se
potevano reggere la corda e tenergli il maiale il tempo di bersi un
bicchiere di vino.
All'uscita riprese
il maiale e ringraziò i militi per la loro gentilezza e poi scrisse al
loro comandante un biglietto con cui lo informava che i suoi uomini non
erano buoni ad altro che badare il suo maiale.
Il falso pentimento e l’uccisione del
Console Marabini
Corbari, Iris e
Otello, un altro giovane partigiano, partecipano all’azione che vede
l’uccisione del console della milizia Marabini, comandante provinciale
della GNR di Forlì, che si era macchiato di efferati delitti nella
caccia di sbandati, renitenti alla leva e partigiani. Corbari ed Iris
avevano architettato ed inscenato
un pentimento e una finta resa,
concordando il loro passaggio tra le file repubblichine. Il capo dei
ribelli sarebbe stato posto al comando di una legione di camicie nere
mentre la giovane donna avrebbe avuto un posto di rilievo nella Croce
Rossa. L’incontro avvenne presso il podere Castellina, a pochi
chilometri da Rocca San Casciano.
Iris, come già
aveva iniziato Silvio, recita la parte della donna stanca di lottare in
una causa in cui non crede più, perciò spiega al gerarca che ora cerca
si la resa, ma la vuole ottenere alle condizioni più favorevoli.
Verso le otto di
sera i tre partigiani salgono, assieme al gerarca fascista, in una
“Lancia Augusta” condotta da una milite. Il gerarca e i tre “partigiani
pentiti”, secondo gli accordi, dovevano raggiungere Mussolini che si
trovava a Rocca delle Camminate e poi Forlì dove i partigiani sarebbero
stati presentati al generale tedesco, comandante della piazza, che
subito avrebbe avviato le pratiche atte a dare nuove identità a Iris e Corbari. L’automobile parte in direzione di Dovadola poi, appena
oltrepassa la frazione di Pieve Salutare di Castrocaro, l’autista svolta
verso Predappio e si ferma. Iris e Silvio si lanciano uno sguardo
d’intesa dopo che la giovane partigiana estrae, con un gesto fulmineo,
la rivoltella che aveva abilmente nascosto sotto i vestiti, e la passa
al suo compagno seduto al centro. Corbari senza esitare, spara un colpo
a bruciapelo alla nuca del console che si trova seduto davanti.
Iris rapina Modigliana
Il 28 maggio 1944
Iris, armata di mitra, prelevò 80.000 Lire dalla Cassa di Risparmio.
L'11 giugno ci
tornarono, ma stavolta la banca era sbarrata: Iris andò direttamente a
casa del cassiere, lo "convinse" a trovare le chiavi della cassaforte, e
la svuotò di 10.150 lire, senza trascurare di rilasciargli una ricevuta.
Ogni volta che
occupavano un centro abitato dopo aver messo in fuga la guarnigione
locale, Iris si dirigeva subito alla banca e la svaligiava, per poi
dividere il bottino in parti uguali: una per le necessità del gruppo,
l'altra da distribuire alle famiglie contadine più povere.
Il mitra di Iris
era stato un "regalo" di Corbari: impugnatura arabescata, canna decorata
da incisioni a sbalzo, dimensioni molto contenute.
Quel mitra maledetto si sarebbe vendicato, diventando il punto di
partenza per una concatenazione di eventi sfortunati, neanche
conservasse l'anima fascista di chi lo aveva creato e voluto così
com'era.
L’aviolancio del Monte Lavane
Corbari chiede
aiuto a Tonino Spazzoli che con “Radio Zella” e assieme all’O.R.I.
(Organizzazione Resistenza Italiana) lancia pressanti appelli agli
alleati i quali decidono per un lancio di viveri e armi, sull’altopiano
del Lavane, la notte tra il 10 e l’11 luglio 1944. Le casse appese ai
paracadute comprendevano anche materiale esplosivo che venne nascosto in
una capanna (a lato). I quattro passaggi consecutivi dell'aereo da
trasporto erano stati notati dai tedeschi: cinque colonne formate da SS
e truppe scelte degli Alpen Jager avanzavano verso il monte Lavane.
Casadei
intenzionato a far saltare l’esplosivo, dopo aver piazzato detonatore e
miccia si accorse di non avere i fiammiferi e decise di lanciarci dentro
una bomba a mano, dicendo: "O
riesce o ci resto secco".
Capanna del Partigiano (1165m)
In quell'istante
“il Bello” gli passò un cerino con cui accendere la miccia: questa
azione provvidenziale impedì a Casadei un gesto suicida. I soldati
tedeschi, credendola ancora occupata, circondarono la capanna
raggruppandosi a centinaia tutt’intorno, poi un'esplosione spaventosa
sembrò frantumare l'intera montagna, come se fosse un vulcano in
eruzione, e persino i compagni che si allontanavano sul versante opposto
vennero scaraventati qualche metro più in là dallo spostamento d'aria.
Tra Alpen Jàger e SS, morirono circa duecento militari e altri
centocinquanta rimasero feriti. Persino Radio Londra elogiò l'azione.
Nessuno di loro poteva immaginare che tutto questo era opera del solo
Adriano Casadei, aiutato da due compagni.
La Banda
I compagni venivano
chiamati con nomi di battaglia (nomignoli) per evitare che i fascisti,
conosciuti i nomi veri, mettessero in atto rappresaglie contro le loro
famiglie. “Solo alcuni di noi erano a conoscenza dei nomi veri e
possedevano l’elenco di tutti gli appartenenti alla formazione”
(Dalmonte)
Lorenzo Casadio
“Gallo
Ebro Drei “Bibì
Primo Palli “Primè”
Pino Bartoli
“Maestro”
Giovanni Zanfini
“Puccì”
Battista Casanova
“e Babì”
Luigi Ceroni “il
Dottore”
Francesco Bertoni
“Uslì”
Luciano Roccalbegni
“De Cinque”
Alfredo Nobili “il
Bello”
Elio Ghiselli
“Ferroviere”
Eleonoro Dalmonte
“il Professore”
San Valentino di Tredozio Ottobre 1944
Partigiani del Battaglione «Corbari» in esercitazione.
Alcuni
componenti della “Banda Corbari
Altri componenti: I Fratelli Spazzoli
Tonino un
legionario di Fiume, mantenne i contatti con gli alleati. Catturato
dalla Gestapo a Forlì venne sottoposto a interrogatori e spaventosi
tormenti, ma resistette senza riferire ai nemici alcuna informazione
sulla banda. Anche Arturo Spazzoli, che aveva tentato inutilmente di
liberare il fratello, partecipò ad azioni clamorose: riuscì a
raggiungere le linee alleate dopo aver liberato 27 militari inglesi.
Il sostegno dei
parroci locali
Corbari ebbe più
amici tra i sacerdoti che tra i dirigenti politici. Anzi, i secondi gli
tributavano una stima a denti stretti e più di una volta criticarono
aspramente il suo innato senso di indipendenza, accusandolo di
“individualismo” e di essere un “anarchico”, quasi fosse un insulto.
Nella canonica di
San Valentino, sui monti a nord di Tredozio, don Luigi Piazza (il prete
con il mitra in mano) ospitava i partigiani della banda e rischiava la
vita ogni giorno per procurare loro cibo e vestiario. Dopo la morte di
Corbari, decise di unirsi definitivamente alla formazione.
Don Antonio
Vespignani, parroco di San Savino, conobbe Corbari nel gennaio del 1944
e trascorse un'intera nottata a discutere di tutto: cosa si provasse
nel momento di dover uccidere,
il tormento di fronte alla decisione di fucilare una spia, i
sentimenti da sopprimere in nome di una guerra di liberazione che stava
costando troppo sangue... “Provai un'immediata simpatia verso di lui,
per la schiettezza e la sincerità e per i nobili ideali...”
Il silenzio della
Chiesa
Molti parroci della
zona si schierarono con i ribelli, in lacerante contrasto con il papato
di Pio XII che taceva sulla persecuzione degli ebrei. Erano preti in
crisi di identità nei confronti del Vaticano, che oltretutto alla fine
del conflitto si prodigherà per favorire l'espatrio e garantire un
sicuro e agiato rifugio ai gerarchi nazisti in America Latina...
E scomodi anche per quella parte di mondo cattolico
rappresentato dalla Democrazia Cristiana, fondata nel 1942, che
soprattutto a Faenza rifiutava la lotta armata in nome di un
opportunistico rifiuto della violenza.
I partiti tentarono
in diverse occasioni, con crescente insistenza, di imporgli la presenza
di commissari politici. Cominciarono i repubblicani, ai quali rispose:
“Non voglio commissari che mi diano ordini, lottare per la libertà è
l’unica cosa che conta per me oggi”. Poi ci provarono e riprovarono
tutti gli altri, sempre più indispettiti dai suoi rifiuti: arrivarono in
alcuni casi all'aperta ostilità, creando un pericoloso
isolamento intorno alla
formazione partigiana che, senza commissari politici, si attirava la
diffidenza dei dirigenti di ogni partito, frustrati dall'impossibilità
di imbrigliare “l’eretico” Corbari. A un certo punto smise di mostrarsi
cortese e diplomatico, e all'ennesima richiesta di accettare i
commissari, stavolta da parte del comandante della 36a
Brigata Garibaldi, rispose seccamente: “Caro Bob, a te con quel nome
possono mettere il collare che vogliono, a me no”.
Onestà e affetto
verso la popolazione locale
“Quando non
disponevamo di mezzi finanziari, ricorrevamo a rilasciare buoni o
regolari ricevute che dopo
la guerra furono pagate, fino al centesimo, dai comandi alleati”
(Dalmonte)
.
“A so Curbera”
“era generoso ma
assolutamente indisciplinato (…) mi ha prestato 5 £ senza volerle
dicendo: così ti ricorderai di me “ (Federico Laghi, fascista)
Insofferente a qualsiasi condizionamento
o ordine calato dall'alto
“non voleva fare il
militare” (Lina, la moglie)
Ribelle
Silvio Corbari era
irruente e allegro,
scanzonato e spregiudicato, ribelle fino a rasentare l'incoscienza. Ma
sempre attento a non mettere a
repentaglio la vita dei compagni: su questo era irreprensibile, al
punto da intraprendere imprese solitarie quando i rischi sembravano
eccessivi, ricorrendo ai travestimenti entrati nella leggenda.
Strategie
militari
Nel mettere a punto
i piani di attacco insieme ai compagni, sosteneva che occorrevano
estrema violenza iniziale e velocità, per seminare il panico tra i
nemici e ottenerne lo sbandamento, impedendo così loro di riorganizzarsi
e reagire. La riuscita di un’azione dipendeva innanzitutto dalla
sorpresa e dalla scelta del luogo, che doveva garantire massima libertà
di movimento e di sganciamento, per ritirarsi immediatamente su
posizioni difensive favorevoli. Strategie e tattiche di guerriglia che
sembravano anticipare un'epoca: circa quindici anni più tardi, Ernesto
Che Guevara avrebbe detto esattamente le stesse cose ai suoi uomini,
probabilmente senza aver mai sentito parlare di un certo Silvio Corbari.
Il mito
La sua figura era
circondata da un tale alone mitico che fiorirono ogni sorta di leggende
intorno a certe sue clamorose imprese solitarie; eppure alcune, le più
audaci, vennero realmente compiute, anche se con il tempo qualcuno ha
pensato si trattasse di fantasie popolari.
Rossi il
traditore
Arturo Spazzoli e
Casadei si imbatterono nei pressi di Modigliana in un certo Franco
Rossi, un giovane partigiano che sostenne di essere appena evaso dal
carcere di Castrocaro.
Ottenuto un
incontro con Corbari, a Ca’ Cornio, gli rivolse preghiere di accoglierlo
nella sua banda, ed egli acconsentì. Nella stessa casa si erano
momentaneamente rifugiati alcuni partigiani della banda, Iris e Franco
Casadei. Durante la notte che trascorsero lì Rossi rubò il mitra a Iris
per poi scappare e riferire ai fascisti dove si trovava la banda. Iris,
intanto, si procurò un mitra sostitutivo (Sten) dal quale però, a causa
di un difetto di fabbricazione, partì un colpo che la ferì alla gamba
sinistra e che le impedì di lì in avanti di camminare.
Tornati alla casa,
Arturo, Casadei e Corbari, che si erano allontanati per recuperare il
Rossi di cui avevano capito le intenzioni, sapendo che per prudenza
avrebbero dovuto abbandonare immediatamente quel posto, decisero di
ripartire all'alba, dopo aver recuperato le forze.
Il tragico epilogo
Alle prime luci
dell'alba, Il casolare è completamente circondato, da un reparto scelto
del Battaglione Mussolini e da un’intera compagnia della I Divisione
Alpen Jager. Un manipolo di fascisti e militari tedeschi irrompe
all'interno.
Un ufficiale
nazista si affaccia nella camera di Silvio e Iris: lei ha già lo Sten in
pugno, spara e lo uccide. Si scatena l’inferno: gli assedianti aprono il
fuoco con mitragliatrici e mortai, la casa è sventrata dalle granate,
porte e finestre si sbriciolano sotto le raffiche di grosso calibro,
eppure dall’interno i partigiani continuano a rispondere colpo su colpo.
Corbari vorrebbe
prendere in braccio Iris e scappare saltando giù per una scarpata dietro
la casa, ma lei lo scongiura di lasciarla lì e tentare da solo: Silvio
non sente ragioni. Allora Iris si uccide con un colpo di pistola, il
gesto estremo per costringere Silvio a fuggire da solo.
Silvio, stravolto
dalla disperazione, stringe per l'ultima volta Iris tra le braccia, le
accarezza il viso, la bacia sulla bocca, e poi, urlando e sparando, si
butta fuori dalla finestra al primo piano e rotola lungo la scarpata.
Facciata laterale di Ca Cornio: la
finestra
in alto a sinistra è quella dalla quale Corbari
si è buttato.
Arturo Spazzoli ha
attirato il fuoco su di sé: ha le gambe sfracellate e una vasta ferita
al ventre. Pochi istanti dopo, durante la fuga, Corbari, ferito alle
gambe, sfinito e inerte inciampa e precipita dall'argine del torrente,
sbattendo la testa contro un masso. Adriano Casadei, che è ormai in
salvo tra i cespugli, torna indietro e tenta di sorreggerlo: ma Silvio
ha il cranio fratturato, se lo carica in spalla e raggiunge un piccolo
avvallamento, dove adagia l'amico privo di conoscenza, rimanendo accanto
a lui.
A scorgerli per
primi sono gli Alpen Jager. Urla di trionfo, ordini secchi, risate
isteriche. Adriano si alza in piedi e li guarda senza tradire alcuna
emozione.
E’ finita
Franco Rossi si
para davanti a Casadei, squadra soddisfatto Corbari, sdraiato a terra in
una pozza di sangue, e dice mostrando il mitra di Iris: “Visto? Te l'ho
riportato!”. Casadei lo fissa con disprezzo e mormora tra i denti:
“Anche tu farai una brutta fine”.
I fascisti
requisiscono un barroccio trainato dai buoi e ci caricano sopra Corbari
svenuto e Arturo Spazzoli agonizzante. Casadei, le mani legate dietro la
schiena, è costretto a seguirli a piedi. Dopo qualche chilometro, i
fascisti finiscono a colpi di pistola Arturo, per non sentire più i suoi
gemiti. Raggiunti i camion in sosta sulla strada, si dirigono a
Castrocaro.
LA MÖRT ED CURBERA
E prèm a caschê
e fo curbera
e par la bòta
o tremê la tëra
e o fo sobit sera
l’è bèl finì e’ su dé par na bangera
è
bello finire la vita per una bandiera
DULCEM ET DECORUM EST PRO PATRIA MORI Orazio
E cvànd che la prema sfója’d sôl
E
quando la prima sfoglia di sole
la spôrbia d’ôr tota la campagna
spolvera d’oro tutta la campagna
e’partigiân
e mör
il partigiano muore
Bsén a lô ôn pòpul’d cuntadén
Vicino a lui un popolo di contadini
o prega e o biastèma a tësta basa
prega e bestemmia a testa bassa
Sôra a lô na bânda d’asasén
Sopra di lui una banda d’assassini
la rid cun la vargôgna in faza
ride con la vergogna in faccia
(Giuseppe Bartoli)
La mattina del
18 agosto 1944
Silvio Corbari
viene impiccato nella piazza del municipio di Castrocaro, senza aver
ripreso conoscenza. Prima che il boia gli stringa il cappio intorno al
collo, Adriano Casadei lo abbraccia e lo bacia
per l'ultima volta. Un miliziano fascista lo colpisce con un
manrovescio, spaccandogli un labbro. Quando tocca a Casadei, si mette il
cappio da solo. Ma tirano la corda con eccessiva foga, e questa si
spezza. Dopo qualche minuto, Casadei ripete la scena, e stringendosi il
nodo scorsoio dice ad alta voce in dialetto romagnolo: "Siete marci
anche nella corda!".
Nel pomeriggio i
corpi vengono trasferiti a Forlì e impiccati per la seconda volta, nella
centralissima piazza Saffi, come monito per la cittadinanza. L’indomani
decidono di appendere anche i cadaveri di Arturo Spazzoli e di Iris
Versari.
Tonino Spazzoli, già prigioniero dei nazi-fascisti, viene portato la
sera del 19 agosto in Piazza Saffi sotto il corpo penzolante del
fratello; uno dei repubblichini presenti gli solleva il capo e gli dice:
“lo riconosci? domani ci sarai pure tu!” E la promessa è mantenuta:è
ucciso nei pressi di Coccolia, il suo paese natale, in un trasferimento
a bordo di un furgone da Forlì a Ravenna durante un tentativo di fuga.
Nella foto che
ritrae Iris mentre penzola da un lampione - scalza, le gambe scoperte, i
lunghi capelli che nascondono l'oltraggio del cranio sfondato con i
calci dei fucili - si notano a poca distanza due uomini in uniforme che
la guardano e ridono sguaiatamente. Sono loro il dettaglio osceno di
quell'immagine impietosa.
Frustrazione e
dolore
Nei giorni seguenti
aeroplani tedeschi lanciano volantini inneggianti alla fine di Corbari e
della Banda Corbari (come la chiamano loro) I partigiani superstiti si
ricompongono sotto il comando di Romeo Corbari, e danno vita al
“Battaglione Corbari”.
Romeo e Don Piazza
La terra
racconta
Tutt’ora chi visita Ca Cornio ha la possibilità di conoscere la storia
di Corbari grazie a dei pannelli illustrativi esposti in una bacheca
esterna e in una ex legnaia (due targhe commemorative sono inoltre
esposte sulla facciata).
MEDAGLIE ALLA
MEMORIA AL VALOR MILITARE
Corbari Silvio
Comandante di un
battaglione partigiano da lui stesso costituito, terrorizzava con
attacchi improvvisi e di estrema audacia i presidi nazi-fascisti della
Romagna, creando attorno a sé fama di leggendario eroe, inesorabile
contro ogni prepotenza ed oppressione. Decine di colonne motorizzate
nemiche furono da lui sbaragliate, caserme e reparti nazifascisti furono
da lui disarmati e costretti alla resa, villaggi e paesi occupati e
liberati. Ferito durante uno scontro contro forze preponderanti e
catturato dal nemico, pagava col capestro il suo epico valore,
concludendo la sua vita che fu simbolo di ogni ardimento e fiamma di
amore per la Libertà e per la Patria ....
Adriano Casadei
Vicecomandante di
battaglione partigiano, dopo innumerevoli azioni compiute alla testa dei
suoi uomini con leggendaria audacia, dopo aver sbaragliato e disarmato
decine di presidi fascisti e tedeschi, dopo aver infranto un attacco
tedesco dando fuoco ad un deposito di esplosivi che nel tremendo scoppio
seppellì oltre 200 nemici, veniva catturato mentre accorso vicino al suo
comandante di battaglione, caduto ferito nel folto della mischia,
tentava di portarlo in salvo. Sopportava fieramente torture e sevizie e
nell’istante in cui il capestro stroncava la sua giovane esistenza,
innalzava col grido di «Viva l’Italia », l’estremo inno alla Patria
amata ....
Iris Versari
“Giovane
di modeste origini, poco più che ventenne, fedele alle tradizioni delle
coraggiose genti di Romagna, non esitò a scegliere il suo posto di
rischio e di sacrificio per opporsi alla tracotante oppressione
dell'invasore, unendosi ad una combattiva formazione autonoma partigiana
locale. Ardimentosa ed intrepida prese parte attiva a numerose azioni di
guerriglia distinguendosi come trascinatrice e valida combattente.
Durante l'ultimo combattimento, circondata con altri partigiani in una
casa colonica isolata, ferita ed impossibilitata a muoversi, esortò ed
indusse i compagni a rompere l'accerchiamento e, impegnando gli
avversari con intenso e nutrito fuoco, agevolò la loro sortita. Dopo
aver abbattuto l'ufficiale nemico che per primo entrò nella casa
colonica, consapevole della sorte che l'attendeva cadendo viva nelle
mani del crudele nemico, si diede la morte. Immolava così la sua giovane
vita a quegli ideali che aveva nutrito nella sua breve ma gloriosa
esistenza.”....
Antonio (Tonino) Spazzoli
“Volontario
della prima guerra mondiale, mutilato e pluridecorato al valor militare,
fu nella guerra di Liberazione organizzatore audace, sereno e cosciente
e diede vita e diresse formazioni partigiane fedeli continuatrici delle
più fulgide tradizioni. I più audaci colpi di mano, i più rischiosi atti
di sabotaggio, le più strenue azioni di guerriglia lo ebbero primo fra i
primi, di esempio a tutti per coraggio, valore e sublime sprezzo del
pericolo. Arrestato una prima volta e riuscito ad evadere si arruolava
in un battaglione partigiano continuando senza sosta nella sua attività
che mai dette tregua all’avversario. Caduto ancora nelle mani del nemico
durante l’espletamento di una missione rischiosa affidata al suo
leggendario coraggio, subiva sevizie atroci e martirii inenarrabili
senza nulla rivelare che potesse tradire la causa. A compimento della
sua eroica esistenza tutta dedicata alla Patria, cadeva sotto i colpi
degli sgherri nemici che barbaramente lo trucidarono.”
Arturo Spazzoli
Medaglia d’argento al Valor militare
alla memoria
Forlì
Epigrafe sulla facciata del Palazzo
Comunale in Piazza Saffi, dettata da Aldo Spallicci:
Fra tirannia e libertà
fra dittatura e popolo
stanno
pietra di confine
le forche di
Silvio Corbari
Iris Versari
Adriano Casadei
Arturo Spazzoli
Se voi volete andare in
pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate
nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono
imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un
italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani,
col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione.
Piero Calamandrei
Molto del materiale
riportato in questo testo è stato tratto, elaborato e riassemblato dalla
tesina dell’alunna Aurora Borioni VCs del Liceo scientifico Torricelli
di Faenza a.s. 2007/2008
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