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Da Badia Prataglia all'Eremo di Camaldoli per i Fangacci e ritorno dal Cotozzo |
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N.B. Le notizie sotto riportate sono state reperite su alcuni libri e in vari siti Internet, e da noi liberamente assemblate.
BADIA PRATAGLIA
Il rapporto con la foresta
Dai tempi antichi l'alto territorio "in fra i’Tevero et l’Arno", come Dante cantava, fu sede di solide istituzioni religiose: nel primo Medioevo fiorirono qui le abbazie del Trivio e di Prataglia. La storia di Badia Prataglia è stata fortemente determinata, fino all'epoca moderna, dal rapporto che i monaci, Pratagliensi prima e Camaldolesi poi, hanno saputo instaurare nel corso dei secoli con la foresta. Al rapporto di collaborazione tra monaci e abitanti di Badia Prataglia si deve la lungimirante espansione e conservazione delle nostre foreste, giunte rigogliose fino ai giorni nostri. Tale risultato è dovuto anche, in epoca più tarda, alla politica forestale del Granduca Leopoldo II di Lorena ed all'opera di Carlo Siemoni, nominato nel 1837 Amministratore delle Foreste Casentinesi (a memoria di questi grandi è stata eretta – maggio 1990 - "una croce sull'Appennino" situata nel Parco Arboreto di Badia Prataglia dell'Amministrazione Forestale dello Stato). Durante i secoli il paese ha sempre vissuto delle attività legate allo sfruttamento della foresta che da sempre circonda Badia Prataglia; nel 1837, per esempio, ben 40 abitanti del paese erano soliti emigrare stagionalmente per vendere oggetti di legno fabbricati in paese oppure per la transumanza, trasferendo il bestiame ovino dai pascoli estivi di montagna a quelli invernali, spesso lontani, nelle maremme del grossetano o del senese.
L’economia
Badia Prataglia è da sempre il centro della civiltà casentinese del legno: nel 1887 i suoi artigiani meritarono il primo premio dal Ministero dell'Industria e del Commercio per la numerosa varietà degli oggetti prodotti (234) e fin dal 1286 gli Annali Camaldolesi vi documentano l'esistenza di un ricco artigianato. Nel secolo scorso Badia Prataglia fu pure famosa per la sua industria della paglia, celebre per la produzione di trecce per cappelli, sporte e ventole per attizzare il fuoco. L'economia di Badia è sempre stata impostata nel duplice rapporto con la foresta che consentiva, oltre la lavorazione del legno, tutta un'attività di coltivazione e cura della stessa nel pieno rispetto della natura e ne è testimonianza l'attuale stato del patrimonio forestale. Dalla fine dell'Ottocento gli abitanti di Badia Prataglia hanno sviluppato intorno a questo rapporto vitale con la foresta una fiorente attività turistica che recentemente è stata coronata con la costituzione del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, nel cui ambito Badia Prataglia rappresenta una zona di centrale importanza anche perché si trova in posizione intermedia tra il Monastero di Camaldoli, il suo Eremo e il Santuario de La Verna e il Castello dei Conti Guidi in Poppi.
La struttura urbanistica
La struttura urbanistica del paese è assai caratteristica. Infatti, Badia Prataglia è costituita da un raggruppamento di piccoli gruppi di abitazioni chiamati "Castelletti", sparsi a poca distanza l'uno dall'altro, nascosti tra castagneti ed abetine, ognuno con i loro nomi: Fiume d'Isola, Sassopiano, Case Venti, La Casina, La Casa, Casa Celino, L'Aia, Storca, Andria, La Maestà, Casa Damiano, Casa Balena, Casa l'Orso, La Capannina, La Vetriceta, Poggio al Vento, La Nociarina, Casa la Coppa, Casa alla Ghierina, I Campi, La Mottaccia, Il Romito, Case d'Arno.
Badia Prataglia e il turismo
Badia Prataglia, stazione climatica immersa nel verde rigoglioso dell'omonima foresta, da sempre rappresenta il centro turistico più prestigioso ed attrezzato del Casentino. La vocazione turistica del paese, già presente dalla fine del secolo scorso, si è gradualmente evoluta e strutturata alle aspettative di una moderna domanda di servizi turistici, instaurando al contempo un rapporto con la foresta circostante che ha sempre visto prevalere le esigenze di tutela e valorizzazione della natura. L'equilibrio tra l'assetto urbanistico del paese e l'attività dell'uomo da una parte e la foresta dall'altra, fanno di Badia uno dei principali centri per l'accoglienza all'interno dell'area del neo costituito Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi. La centralità di Badia Prataglia, rispetto all'interesse naturalistico ed all'attività turistica connessa al Parco, è già stata confermata dallo svolgimento di manifestazioni a carattere nazionale, come "Sentiero Italia" che vi hanno avuto i loro momenti salienti. Badia Prataglia è una stazione turistica che si offre per soggiorni di villeggiatura e per essere il centro da cui muovere per interessanti escursioni di carattere naturalistico (Parco, Riserva di Sassofratino), storico (Castello dei Conti Guidi in Poppi, Pievi romaniche casentinesi), religioso (Monastero di Camaldoli, Santuario de La Verna) e sportivo (campo da golf nel vicino capoluogo di Poppi, ecc.) E' presente inoltre una struttura polivalente di accesso al Parco che offrirà servizi ai visitatori in collaborazione con le infrastrutture già esistenti. Questo fa di Badia una delle principali "porte della Toscana" di accesso al Parco stesso. Colui che oggi vuol vivere nella foresta, passeggiare nel Parco e respirare anche questa aria di antiche tradizioni, può soggiornare a Badia Prataglia che offre ogni tipo di comfort con una adeguata ricettività: alberghi, appartamenti e camere, un camping attrezzato ed altri accurati servizi come ad esempio vari impianti sportivi. Inoltre, non per ultimo, troverà senza dubbio calore e cortesia per l'innato carattere ospitale dei suoi abitanti.
L’artigianato
L'economia del paese si basa soprattutto sulle attività turistiche, un tempo anche sulla lavorazione del legno. Fino dai tempi più antichi esistevano nell'Alto Casentino ottime condizioni ambientali e tecnico-economiche per la nascita delle piccole botteghe del legno. Durante il lungo inverno infatti nell'interruzione dei lavori agricoli, i laboriosi montanari che disponevano abbondantemente di materie prime cercarono nel lavoro del legno una fonte di guadagno complementare a quella della coltivazione della terra o del taglio del bosco. Il principale centro di questa attività fu Badia Prataglia, sorta intorno all'antica abbazia ai margini della foresta, dove boscaioli, carbonari e pastori costruirono le loro case, origine degli attuali castelletti. Le componenti essenziali di questa vita artistica sono il paesaggio e il lungo inverno. Nelle lunghe giornate d'inverno il forte montanaro abituato all'aria aperta della montagna, costretto a stare in casa, quasi per passatempo comincia a costruire qualcosa di utile fabbricando mestoli ed altri utensili domestici in legno. Negli anni successivi questo lavoro passò da un'attività invernale dovuta ad esigenze familiari ad una vera e propria lavorazione artigianale intesa come attività remunerativa; nonostante questa produzione fosse rozza e primitiva, suppliva a questa carenza la modicità del prezzo. Nonostante la lavorazione del faggio a Badia Prataglia risalisse a tempi remoti (1286) solo con l'inizio del 1800 si ha un perfezionamento ed un ammodernamento delle tecniche di lavorazione, grazie soprattutto all'insegnamento di artigiani fatti venire dai montagnoli dalle grandi città (Fiesole). In particolare fu introdotto a Badia Prataglia l'uso del tornio, fino a quel tempo sconosciuto, che permise un notevole aumento di produzione ma anche di qualità. L'artigianato del legno in Casentino, come del resto tutte le altre attività, fu influenzato dalle alterne vicende storiche, politiche e in particolar modo dall'Unità d'ltalia. A partire da questo periodo si ha un maggiore sviluppo delle vie di comunicazione con conseguenza l'aumento delle attività commerciali e maggior varietà degli articoli artigianali. L'apice di questa varietà di produzione fu raggiunta nel 1887 quando gli artigiani di Badia Prataglia vinsero il primo premio del Ministero dell'Agricoltura, Industria e Commercio per la numerosa varietà degli oggetti (234). In seguito la lavorazione del legno si è dovuta perfezionare non solo tecnicamente ma anche stilisticamente per due diversi motivi. Il primo di carattere esclusivamente economico, in quanto forte era la concorrenza dei lavori in ferro e l'aumento del costo della materia prima. Il secondo ha un carattere più sociale in quanto gli oggetti prodotti fino a quel momento, utensili di uso comune molto rustici, non corrispondevano alle esigenze di una classe sociale che, proprio allora si avvicinava a questo genere di prodotto. L'occasione per affinarsi stilisticamente si presentò agli artigiani quando Badia Prataglia oltre che il principale centro della lavorazione del legno in Casentino divenne anche il più importante luogo di villeggiatura. Si ebbe così l'incontro diretto fra produttore e consumatore. L'artigiano cercò di esaudire le esigenze del villeggiante stilisticamente più raffinato, cominciò così a migliorare l'usuale produzione di utensili di uso familiare, ma, quello che è più importante, a produrre oggetti destinati anche ad altri usi come l'arredamento. Si raggiunsero così delle forme non solo più raffinate ma anche artisticamente valide. Oggi purtroppo sono rimaste pochissime testimonianze di quella che è stata l'antica produzione artigianale. Tra i prodotti principali degli artigiani di Badia Prataglia ricordiamo: la produzione su castagno di utensili domestici, soprammobili, lampadari, cassapanche, cantinette, carrelli, portabottiglie, vari oggetti per arredamento ed altre suppellettili; la lavorazione del faggio, quercia, cerro per la produzione di "vangigli" (manici per pale e zappe), da vanga, da pala e taglieri; la produzione di, taglieri, votazze e pale e lavorazione su faggio, produzione utensili domestici: mattarello, uova da rammendo, mortai, fusi.
Il folklore
Come tanti altri paesi il folklore di Badia Prataglia consiste in canti, riti popolari e religiosi. Del secolare rapporto tra spiritualità e foresta, tra storia della lavorazione del legno e l'arte povera degli artigiani locali rimane ancora oggi traccia tangibile nella cultura e negli abitanti di Badia Prataglia, con le loro antiche tradizioni; tra queste sono da ricordare la Cenavecchia, Cantar Maggio e la Festa dei Fochi. Cenavecchia. E' una delle tradizioni più importanti e viene eseguita la notte della vigilia dell'Epifania. I bambini del paese (cittini) riuniti a gruppi, castelletto per castelletto, si mascherano e si travestono da " befani " e " befane " e poi girano per tutto il paese, circa all'ora di cena, casa per casa, cantano, ballano, accompagnandosi con strumenti improvvisati, e da ogni famiglia ricevono un modesto compenso, che poi dividono tra di loro. Cantar Maggio Un altro rito popolare è quello del Cantar Maggio legato al mutare delle stagioni: di simili ne troviamo in altre località della Toscana. Si tratta di tradizioni tipiche delle culture rurali e contadine che a Badia Prataglia in passato erano presenti. La notte tra il 30 aprile ed il 1° maggio i giovanotti del paese, a gruppi, girano di casa in casa, e, sotto le finestre cantano "Ecco Maggio" spesso accompagnati con la chitarra. È un canto d'augurio, per la stagione del raccolto, per l'amore, ma è anche di maledizione se le famiglie non danno nessun compenso (uova, formaggio, denaro, vino). Contrariamente alla "Cenavecchia" che rimane ancora vivo, questo del Maggio rischia di esaurirsi, o almeno di perdere le sue caratteristiche originali. Festa dei Fochi Tradizione molto sentita è quella dei Fochi che trae probabilmente la sua origine da quei riti stagionali, propri del mondo contadino.
L'Antica Abbazia di Badia Prataglia
L'abbazia di Prataglia venne fondata intorno al 986 da Monaci Benedettini Cassinesi giunti in Toscana. Come afferma Don Parisio Ciampelli nella relazione storica, letta nella chiesa di Badia Prataglia il 20 novembre del 1910: "(prima di) allora non iscorgenvasi quassù che vasti deserti e profonde solitudini, valloni muscosi, ricoperti di lussureggiante vegetazione, nei cui seni non udivasi che il ritmo flebile ed uniforme delle acque sonanti tra i massi di quarzo e di arenaria, al quale faceva eco dalle serene regioni dell'aria il grido delle aquile e degli astori, librantisi a picco sui profondi cupi abissi". L'abitato di Badia Prataglia ha un aspetto essenzialmente moderno con caratteristiche architettoniche tipiche dei centri di villeggiatura. L'antico è rappresentato dalla chiesa parrocchiale dedicata alla SS. Assunta e a S. Bartolomeo che sorge proprio al centro del paese, in posizione un po' più in basso rispetto al piano stradale attuale. Fondata prima del Mille, l'Abbazia è nota a partire dal 1002, come si legge in un Diploma di Ottone III Imperatore, precedente quindi alla fondazione di Camaldoli. In pochi anni i monaci aumentarono di numero e nel settembre 1008 fu consacrata la nuova chiesa da parte del vescovo di Arezzo Elemperto, che aveva anche fatto ingrandire il monastero, assegnandogli selve, vigne e campi lungo I'Archiano, nei pivieri di Partina e Bibbiena. Dalla fondazione fino alla meta del XII secolo I'Abbazia a Prataglia aumenta il proprio potere ed i propri possessi, grazie soprattutto ad una serie di donazioni da parte dei vescovi aretini, ed arriva ad avere possedimenti a Partina, Marciano, Salutio, Gello. Nel 1031 il vescovo Teodaldo assoggetto la chiesa di San Clemente, fuori da Arezzo, alla Badia di Prataglia; fino al 1073 Soci era detto "casale del monastero di Prataglia". Nel 1084 un altro vescovo di Arezzo, Costantino, dono Marciano agli abati di Prataglia. Ma l'espansione dell'abbazia si scontrò con quella di Camaldoli, nel frattempo salita a più grande potere e fama, che pian piano prese il sopravvento. Dato che I'Abbazia di Prataglia diminuiva sempre piu di monaci e di potere a favore del monastero concorrente, il 15 giugno 1157, Girolamo, vescovo d'Arezzo, la assoggetto a Rodolfo, Priore Generale camaldolese, insieme a tutti i possedimenti questo a causa soprattutto delle liti e delle lotte sorte fra i due potentati religiosi e temporali; la decisione fu poi approvata dal Papa. L'unione comportava l'osservanza da parte dei Monaci di Prataglia della regola romualdina, tuttavia conservando il titolo abbaziale; i monaci prataliensi non accettarono di buon grado questa decisione superiore, e solo nel 1183 l'Abate prataliense Guglielmo acconsentì di unirsi ai camaldolesi, ma solo nel colore bianco degli abiti e nella recita degli uffizi divini. Ancora nel 1352, essendosi rifiutato l'abate di Prataglia Pietro Nocerio di prestare giuramento al Priore Generale dell'Eremo, dovette essere richiamato all'ordine, mediante censure, dal conservatore apostolico di Santa Maria degli Angioli di Firenze, Abate Nicola di Lapo Ghini. Nel 1314 la chiesa di Prataglia venne rifatta, ma l'abbazia sopravvisse solo fino al 1391, quando papa Bonifacio IX la soppresse, incorporandone definitivamente i beni nel patrimonio camaldolese; così il Rettore della Parrocchia doveva essere eletto dal Maggiore di Camaldoli. La chiesa attuale, unico resto dell'abbazia, ha una facciata molto semplice con un portale con arco a tutto sesto, sormontato da una piccola finestra e sopra alla porta una terracotta moderna con la Glorificazione di Maria. L'interno è a navata unica, coperta a capriate, con abside semicircolare. Interessante la cripta, posta sotto il coro rialzato, a tre navate e due campate, con archi a tutto sesto e volte a crociera, e con capitelli di diversa foggia, dei quali due, ornati di palmette e foglie d'acanto probabilmente frutto di spoglio, sono provenienti forse da qualche edificio preesistente di epoca romana. La cripta è stata restaurata nel 1910. Un'apertura rettangolare nella parete di fondo serviva a contenere le reliquie dei martiri. Da notare una figura umana, scolpita a bassorilievo, con le mani alzate, figura simile a quella che si ritrova sulla facciata della Pieve di Montemignaio e che rappresenta l'antico orante. La chiesa, trasformata profondamente da una serie di restauri, aveva probabilmente due torri a lato dell'abside e, se così fosse stato, avrebbe ripetuto una tipologia di chiesa comune alla aree del Nord Europa. Le due torri furono probabilmente abbattute nel 1510, quando venne costruita l'abitazione del parroco; i due altari laterali e il fonte battesimale della chiesa sono del 1630 e probabilmente i restauri del 1929, che secondo i canoni dell'epoca che cercavano di riportare all'aspetto originale le chiese romaniche, hanno portato, alla distruzione delle decorazioni barocche e rinascimentali stratificatesi nel corso del tempo. Durante i restauri, nel 1930, venne costruito anche il campanile. Un ulteriore restauro venne compiuto tra il 1969 e il 1974 da parte della Sovrintendenza di Arezzo, durante il quale furono tolte le finte bozze di pietra ad intonaco poste all'interno nel 1929, riscoprendo cosi la muratura in pietra.
La Grotta della Madonna di Lourdes a Badia Prataglia
In località La Casina, lungo la strada che da Badia Prataglia porta a Corezzo e a Rimbocchi e di lì a La Verna, si trova una cappella dedicata alla Madonna di Lourdes, comunemente chiamata la Grotta, fatta costruire nel 1939 dal sacerdote Lorenzo Mondanelli. Don Lorenzo, nato a Badia Prataglia nel 1878, era partito come missionario per l'America del Sud nel 1905, prima con destinazione l'Argentina poi Chillán in Cile dove, oltre alla chiesa, edificò una scuola ed un ospedale ancora oggi funzionanti. Fu qui che nel gennaio del 1939 rimase vittima insieme ai suoi fedeli di un terremoto che colpì gravemente tutta la missione; egli si salvò per miracolo pur essendo travolto da una trave e riportando ferite alla testa. Il suo vescovo, per consentirgli di rimettersi, gli concesse un permesso di un anno da trascorrersi in Italia e fu in questa occasione che, per ringraziare della protezione ricevuta dalla Madonna, Don Lorenzo fece costruire la cappella entro lo spazio di una grotta naturale dove da bambino si riparava dalla pioggia quando andava a portare al pascolo le pecore. Nel gennaio del 1940 Don Lorenzo si imbarcò nuovamente per il Cile, portando con se anche la giovane nipote Tersilia. La sua nave non arrivò però mai sulle coste del paese sudamericano perché su di essa scoppiò un incendio quando si trovava ancora in Europa, vicino a Marsiglia, causando più di 300 vittime fra coloro che perirono tra le fiamme e coloro che per salvarsi si buttarono in mare ed affogarono. Don Lorenzo anche questa volta attribuì alla protezione della Madonna la salvezza propria e della nipote e da Marsiglia fece ritorno in Italia dove rimase come parroco di Serravalle fino al 1946. Fu in quell'anno che, terminata la guerra, il suo vescovo lo richiamò in Cile dove rimase fino a pochi anni prima della morte avvenuta nel 1962. La Madonna della Grotta non ha però protetto solo il suo edificatore: nel 1944 infatti, durante la guerra, alcuni giovani proprio all'interno della piccola cappella trovarono rifugio, salvandosi così la vita, quando furono fatti oggetto di una serie di attacchi aerei mentre venivano costretti a camminane in colonna dai tedeschi.
Gastronomia
La gastronomia è una spia interessante sulle abitudini del nostro paese e sulla capacità di ricavare in passato i massimi risultati da poche risorse. La semplicità tipica della gente di montagna è riconoscibile anche nella preparazione di molti piatti, la cui bontà non è seconda a quella di ricette più raffinate. Nelle occasioni importanti i pranzi iniziano con i crostini neri: ai fegatini di pollo, buoni e delicati, si aggiungono i funghi. Il composto ottenuto tritando il tutto, si spalma sopra il pane fatto a fettine, che si può bagnare nel vin santo o nel brodo di gallina. La cucina consente di riutilizzare, con fantasia e grandi capacità culinarie, pane e farinacei e anche il pane indurito con cui si prepara l'acqua cotta alla tagliatora. I tagliatori che andavano nel bosco si cibavano di acqua cotta. Il lavoro veniva assunto a cottimo e questo non consentiva di perdere tempo, anche per cucinare: da qui la necessità di un piatto che richiedesse poco tempo per essere preparato, ma che fosse allo stesso tempo buono ed energetico visto il lavoro pesante. L'acqua cotta rispondeva pienamente a queste esigenze e si preparava con pochi elementi: cipolla, pomodoro, aglio, pane raffermo e verdure.)e farina di castagne. Grazie anche alle semplici ma efficaci tecniche di conservazione, si riusciva a mantenere la farina di castagne intatta per lungo tempo nei cassoni. Si riusciva nell'intento pressandola in fondo al contenitore. Ricordiamo, poi, che nella nostra zona il tipo di castagna coltivata era la "pistolese" che, meno nobile del marrone, è però più succulenta e perde meno facilmente le sue qualità nutrizionali. Prima di tutto è necessario stacciare la farina per poi stemperarla in un paiolo usando acqua fredda un po’ salata. Si mette poi al fuoco continuando, con il mestolo di legno, a girare l'impasto ed aggiungere acqua. La polenta si può considerare pronta quando il tutto si stacca con facilità dalle pareti del paiolo. Dopo cotta si rovescia sulla spianatoia, e tagliata con il filo di "refe", si serve sola o accompagnata con buona ricotta. Il detto dice "Vin di nuvole e pan di legno", per dire che non si sconsiglia di bere vino di vite con questo piatto. Un altro alimento con cui si può gustare la polenta dolce è con l'aringa. Un tempo, quando le risorse alimentari scarseggiavano, l'aringa veniva legata ad un trave della sala da pranzo e si prendevano due fette di polenta e si strisciavano per insaporirle sulla stessa. Molti narrano, forse per burla, che molti non sbattevano la fetta di polenta nell'aringa, ma nell'ombra che la stessa rifletteva, illuminata dalle lampade ad olio, sul muro). Molto meno antica della polenta dolce, è quella gialla, cioè ottenuta con la farina di mais, che nelle campagne del Casentino cominciò ad essere coltivato nel 1800. Questo piatto è buono condito con il nostro buon sugo di carne, ma si presta ad essere utilizzata con tanti altri prodotti quali il cacio, i funghi o addirittura fritta. Quando si parla di primi piatti, non si può dimenticare la Panzanella, un monumento al buon gusto e alla semplicità oltre che un inno alla primavera. Si prepara, infatti, con pane raffermo e tutte le verdure fresche che si possono trovare in un orto. Uno dei lavori, che ha segnato la storia di Badia Prataglia era il carbonaio. Tutti gli uomini che restavano nel bosco per lungo tempo, dovevano cercare di nutrirsi in modo abbondante, senza spendere molto: se uno dei piatti che rispondevano a questa esigenza era l'acqua cotta, l'altro è rappresentato proprio dalla pasta alla carbonara che si fa con spaghetti, rigatino pepe , zenzero e pecorino fresco. Passiamo alle carni. La Scottiglia è una sorta di caciucco di terra, poiché risulta dall'insieme di carni diverse. Visto che la bollitura deve procedere con estrema lentezza, le cuoche erano solite dire che il liquido doveva "sorridere" ma non "gorgogliare". Questo piatto, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, si può assaggiare nei nostri ristoranti, rispettosi della tradizione culinaria in tutti i minimi particolari. Il maiale, è sempre stato allevato nella nostra terra, e cibandosi di castagne e ghiande, ha raggiunto una qualità eccellente di carne, buona per sapore e consistenza. Fin dal 1300 esistevano delle regolamentazioni per quanto riguardava l'allevamento. Questo è essenziale per comprendere l'antica conoscenza che ha portato ad elaborare ricette eccellenti nella preparazione dell'animale. Uno di questi prodotti è il prosciutto. Un altro è la rosticciana, fatta con le costole del suino che si gusta con "pan d'un giorno e vin d'un anno". Che dire poi dei fegatelli saporiti con l'alloro o conservati nel lardo? Sono ottimi dopo una bella escursione nelle nostre foreste. Lasciando le carni, ritorniamo a parlare di castagne. Con la loro farina infatti si prepara un ottimo dessert adatto anche per fare merenda, il "Bardino", meglio conosciuto come castagnaccio, che si può ancora trovare nelle nostre pasticcerie tradizionali. Per quanto riguarda i latticini, non possiamo tralasciare il famoso raviggiolo. Nel 1515 il Magistrato Comunitativo di Bibbiena, come dice Grassi in "Memorie del Casentino", dette in dono a Papa Leone X un raviggiolo in un canestro di felci. Se venite a trovarci potrete poi assaggiare tutti i dolci della tradizione, dai "Cenci", che si fanno per Carnevale alle buonissime crostate preparate con marmellata di more. . Il gusto da noi, si è mantenuto intatto come il dialetto, riuscendo ad attutire i colpi che i prodotti moderni stanno facendo alla buona cucina. Questa è infatti, una grande ricchezza sia per chi la conserva sia per coloro che hanno l'opportunità di gustarla: ogni piatto è un capitolo della nostra storia sociale e spirituale. Altri piatti caratteristici si basano su prodotti locali, prevalentemente frutti del bosco e del la sua fauna: polenta con il ghiro, piatti a base di funghi (ragù, frittate, trifolati, polenta e funghi, ecc.), lo Scottino, piatto a base di ricotta e latte pane ma originariamente da siero del latte e ricotta e pane, e le Mondine, zuppa di castagne secche, le Bricie cioè le castane cotte alla bracie e i Baloci, ovvero le castagne bollite.
L’Arboreto
L'Arboreto nasce nel secolo scorso come parco-giardino, nei pressi della Villa che i Lorena, Granduchi di Toscana, possedevano nel luogo dove oggi sorge la Caserma del Corpo Forestale dello Stato: un ambiente naturale adibito a scopo ornamentale. Successivamente venne trasformato ed ampliato, da parte di Carlo Siemoni e di altri studiosi ed appassionati, per poterlo utilizzare in qualità di impianto per l'acclimatazione di specie arboree esotiche, in commistione con piante autoctone di interesse forestale. I terreni sui quali si trova l'impianto, hanno una storia molto antica in quanto costituivano, intorno all'anno mille, il podere e gli orti dei monaci benedettini dell'Abbazia di S. Maria e San Benedetto a Prataglia. Le prime notizie circa i luoghi sui quali sorge l'attuale Arboreto, risalgono all'anno 980, cioè, a quando alcuni monaci si stabiliscono in questa parte dell'Appennino toscano fondandovi un'Abbazia. (Sull'esistenza del Monastero di Prataglia, si hanno notizie più precise a partire dall'anno 1002, quando con un diploma datato 3 gennaio del medesimo anno, l'Imperatore del Sacro Romano Impero Ottone III convalidava la donazione di questi luoghi e di altri ai monaci Prataliensi, che già in precedenza l'avevano avuta da Ugo, Marchese di Toscana.L'Abbazia durante tutto l'XI secolo continuò ad ingrandirsi acquistando sempre nuove proprietà terriere ed aumentando, nello stesso tempo, la sua potenza in tutti i campi, nonché la sua rilevanza politica, tanto che nell'anno 1031 il Vescovo aretino Teobaldo assoggettò ad essa la chiesa di S. Clemente di Arezzo. Nel XII secolo furono concessi all'Abbazia numerosi feudi, fra i quali il Castello di Marcena nonché importati privilegi come l'intero padronato della chiesa di Serravalle. In seguito, scoppiati dissensi e liti tra i monaci camaldolesi ed i monaci di Badia Prataglia, fu costretto ad intervenire il Pontefice Adriano IV in persona per sedare le contesa e con una Bolla datata 14 giugno 1157, assoggettò il Monastero di Prataglia a Rodolfo, Priore Generale dei Padri Eremiti Camaldolesi, passando tutti i possedimenti sotto la giurisdizione dell'Eremo di Camaldoli. Non volendo sottostare a simili condizioni i Prataliensi continuarono le diatribe circa la proprietà dei luoghi fino a quando l'Abbazia di Prataglia depredata dalle masnade degli Ubertini e fu soppressa da Papa Bonifacio lX con una Bolla del 1391 con cui dispose il passaggio delle proprietà dei monaci ai Padri Eremiti Camaldolesi che trasformarono i territori di Badia Prataglia in fattorie e ridussero la chiesa a semplice parrocchia.) Nel 1809, Napoleone (Nell'anno 1801, il Granduca di Toscana, Ferdinando III di Lorena, fu deposto da Napoleone Bonaparte, che nominò Ludovico di Borbone-Parma Re d'Etruria. Alla morte di quest’ultimo (1803), la moglie Maria Luisa di Borbone, figlia di Carlo IV Re di Spagna, divenne Reggente al posto del figlio Carlo Ludovico, fino al 1807 anno in cui Bonaparte annetté la Toscana alla Francia.)nominò Granduchessa la sorella, Elisa Maria Anna Bonaparte Baciocchi, già Principessa di Lucca e Piombino. Durante il regno di quest'ultima nell'anno 1810, in seguito all'applicazione delle normative atte a sopprimere la proprietà ecclesiastica, l'Abbazia, i poderi che la circondavano, e quindi anche il futuro arboreto, furono espropriati all'Ordine Camaldolese e venduti ai Signori Eugenio e Filippo Biondi di Bibbiena, che ne mantennero la proprietà anche dopo la restaurazione dei Lorena, avvenuta dopo il Congresso di Vienna. In seguito, detti territori furono acquistati dai Granduchi di Lorena, nell'anno 1846, su indicazione dell'Ispettore Forestale Karl Simon il quale dall'anno 1838, era Amministratore della Regia Foresta di Casentino. Karl Simon, italianizzato poi in Carlo Siemoni, ingegnere forestale ed eccezionale esperto in selvicoltura e botanica fu chiamato dal Granduca Leopoldo II di Toscana, per rimediare alle condizioni critiche della Foresta, naturaleconseguenza dei tagli indiscriminati operati sia da parte dei monaci camaldolesi - che commerciavano il legname - che dai coloni romagnoli - che appoderavano senza autorizzazione vaste porzioni di foresta. Il Siemoni fu coadiuvato da un altro forestale boemo, Antonio Seeland, nell'incarico di redigere il piano di riordino e rimedio alla situazione che di della foresta. L'Arboreto faceva parte di un progetto ideato dal Siemoni, poi continuato dai figli Edoardo e Carlo, a loro volta amministratori dei possedimenti dei Lorena dopo la morte del padre (avvenuta nel 1878 presso Sala di Pratovecchio) . Tale progetto riguardava la sperimentazione e l'acclimatazione di specie forestali esotiche, che potessero dare un rendimento sempre maggiore, in termini sia qualitativi che quantitativi del legname, in previsione di una loro eventuale introduzione nella Foresta. Il piano prevedeva, inoltre, tutta una serie di interventi e di innovazioni nella gestione del patrimonio forestale. -La realizzazione di vasti impianti di castagneti -La trasformazione di vecchi pascoli e zone degradate in boschi di conifere -L'introduzione della tecnica del diradamento -La costruzione di nuove strade - in sostituzione di quelle vecchie realizzate ai tempi dell'Opera del Duomo poco agibili per le forti pendenze - -L'introduzione dei carri matti a garanzia di un più rapido trasporto e un minor danneggiamento del legname -La costruzione di una segheria ad acqua nella foresta della Lama, i cui scarti alimentavano una vetraria; l'introduzione di specie animali per incrementare la fauna della tenuta granducale quali: cervi e daini trasportati dalla Germania; mufloni prelevati in Sardegna e un gran numero di specie volatili, provenienti da ogni parte del mondo (Sansone 1915). Durante il periodo della gestione di Siemoni e dei suoi successori, furono realizzati numerosi altri impianti di acclimatazione, dei quali oggi rimangono poche tracce. Un impianto realizzato nella Foresta della Lama sulla particella. forestale n° 73, dove sono ancora visibili: uno stupendo esemplare di Sequoiadendron giganteum ( Lindl.) Buchholz, due esemplari di Calocedrus decurrens (Torr.) Florin, due notevoli Thuja plicata Donn ex D. Don. e due vetusti esemplari di Juniperus virginiana L. Sulla medesima particella, in località denominata "Fornino", vegetano tutt'ora alcuni esemplari di Acer monspessulanum L. e cespugliose Quercus ilex L., sicuramente residui dello stesso impianto. Alla Lama - dietro la Chiesina realizzata nel 1962 dall'Amministratore Dott. Clauser - esiste un altro piccolo arboreto, impiantato in epoca più recente durante la gestione dei figli del Siemoni sulla particella forestale n° 103. Alla medesima gestione appartengono le piantagioni realizzate sulle particelle forestali n° 98 e 102 (G. Bernetti,198). Queste ultime particelle caratterizzate da vaste zone rocciose - situate sopra il Posto di Guardia del C.F.S. della Lama- , erano sul finire del secolo scorso interamente coperte da Brachypodium spp., e prive per la maggior parte di vegetazione arborea a causa dall'alterazione dell'ambiente naturale poiché gli amministratori dell'Opera del Duomo vi consentivano il pascolo intensivo ed incontrollato di ovini e caprini. Il Gabbrielli nel 1978 in base a dati raccolti riferisce che il Siemoni aveva realizzato nella Foresta di Campigna in località Bornia un piccolo arboreto, del quale non esiste più nessuna traccia, nel quale aveva piantato trentadue piante, che di seguito riportiamo con i nomi indicati dallo stesso Siemoni:
-n° 6, di Abies balsamica
-n°4, di Abies picta
-n°12 Pinus laurico
-n° 4, di Pinus pallasiana
-n° 6, di Pinus strobus
Interessante è la particella forestale n° 175, situata sotto la Cima del Termine, in prossimità del Fosso delle Spiagge, uno degli ultimi impianti realizzati al tempo del Siemoni che ancora sopravvive. Su questa particella, utilizzata fin dall'antichità come pascolo per i bovini, Siemoni impiantò un bosco di Picea abies (L.) Karsten, utilizzando un sesto di impianto molto rado, come dimostra la presenza di ramificazioni anche nella parte più bassa dei fusti. Questi alberi fortunatamente sono scampati a tagli indiscriminati della gestione privata, in particolar modo a quella della Soc. Anonima Industrie Forestali, oltre che a quelli di altri più recenti interventi. Questa residua e vetusta particella rappresenta un lembo importante della storia forestale italiana. A Sala di Pratovecchio, intorno alla Villa costruita dal Siemoni, è tutt'oggi visibile un vasto parco ricco di specie esotiche, che meriterebbe di essere meglio curato. Durante la gestione Siemoni la sperimentazione non si limitò alle sole specie arboree ma furono introdotti numerosi arbusti, alcuni tutt'oggi sopravvivono in rari esemplari come il Viburnum tinus L., introdotto nell'anno 1860, che il Vice-Revisore Checcacci riscontrò presente nella località del Puntone di Federico e su alcune scogliere nella zona di Poggio alla Seghettina. Per quanto riguarda l'’introduzione di specie esotiche nelle Foreste Casentinesi, abbiamo notizie certe riportate sul libro: Sguardo sulla Foresta Imperiale e Reale del Casentino e sul suo trattamento, stampato in Firenze dalla Tipografia Carnesecchi nel 1878, in occasione dell'Esposizione Universale di Parigi. In questa pubblicazione redatta in francese oltre agli importanti riferimenti relativi agli innovativi ed originali metodi di gestione vengono riportati i nominativi delle principali piante spontanee o introdotte. Per quanto concerne le specie esotiche vengono indicati l'anno di introduzione, i dati inerenti l'evoluzione del loro sviluppo nel tempo, nonché la loro capacità di introdurre semi fertili, da utilizzare per la riproduzione in vivaio di piante per il rimboscamento.
Varietà esotiche introdotte nelle foreste casentinesi
Ecco un elenco di alcune delle principali varietà introdotte nelle foreste e nell'arboreto con indicato ove possibile tra parentesi l'anno di introduzione:
Larix decidua Miller (1840)
Cedrus Libani A. Richard, (1835)
Cedrus deodara Roxb. G. Don (1855)
Picea abies (L.) Karsten (1835)
Picea smithiana (Wall.) Boiss. (1855), che fruttificò la prima volta nell'anno 1866
Pinus sylvestris L. (1855)
Pinus pinaster Ait. (1853), di cui quattro esemplari ultra centenari sopravvivono nella particella n° 27 della Riserva Naturale Integrale di Sassofratino
Pinus wallichiana Jackson (1850)
Junperus virginiana L. (1855)
Cupressus funebris Endl. (1860)
Thuja plicata Donn ex D. Don. (1855), che fruttificò la prima volta nel 1878
Chamaecyparis lawsoniana (Murrey) Parl. (1860)
Betula pendula Roth. (1835)
Paulownia tomentosa (Thunb.) Steud.
Catalpa Bignonioides Walt. (1850)
Robinia pseudoacacla L.
Aesculus hippocastanum L. (1840)
Buxus sempervirens L.
Celtis australis L.
Viburnum tinus L. (1860)
Sambucus racemosa L. (1860)
Syringa vulgaris L.; Laurus nobilis L.
Prunus lusitanica L. (1850)
Museo e Arboreto Carlo Siemoni in Badia Prataglia
Per lo studio delle piante, o meglio di quel ramo della scienza biologica noto come botanica, ci siamo da sempre serviti di sistemi di raccolta e di conservazione di specie vegetali essiccate, che vengono mantenute in appositi ambienti chiamati erbari, onde costituire una documentazione inalterata nel tempo, riproducente le caratteristiche peculiari delle stesse e da utilizzare nella ricerca sistematica. Analogamente ci siamo serviti della coltivazione su piccola scala di individui vegetali vivi, particolarmente curati in terreni opportunamente adattati quali gli orti botanici, i giardini, gli arboreti , gli impianti di acclimatazione o più in generale le collezioni dendrologiche. Per conoscere meglio gli organismi vegetali e studiarne in maniera approfondita la biologia, è indispensabile la disponibilità di campioni viventi, ai fini della ricerca scientifica sul comportamento, lo sviluppo e l'evoluzione degli stessi. Uno degli impianti che merita particolare attenzione è la collezione dendrologica di Badia Prataglia, ubicata in un'area adiacente al locale Posto Fisso del Corpo Forestale dello Stato, e meglio conosciuta con il nome di "Arboreto Carlo Siemoni". Abbiamo cercato di sintetizzare alcuni degli aspetti salienti quali l'aspetto geologico, la storia, le varietà vegetali ospitate, e altre notizie necessarie per capire il significato di questi straordinari raccoglitori: la collezione dendrologica ed il museo Carlo Siemoni di Badia Prataglia.
Museo forestale “Carlo Siemoni”
Questo piccolo museo è stato realizzato per cercare di soddisfare la crescente richiesta di informazioni e conoscenze sull'ambiente forestale dell'Appennino tosco-romagnolo da parte di coloro, gitanti turisti o le stesse popolazioni locali, che sempre più numerosi si avvicinano con interesse alle manifestazioni naturali. La disponibilità dei locali è ridotta, pertanto confidiamo nella collaborazione dei visitatori per un ordinato svolgimento delle visite e per la conservazione di quanto esposto. Il museo è dedicato a Carlo Siemoni, ingegnere forestale boemo, chiamato ad amministrare le foreste casentinesi nel 1837 dal Granduca di Toscana Leopoldo Il. Il Siemoni visse e lavorò a Pratovecchio dove morì nel 1878. A Lui, valente selvicultore e ideatore di importanti innovazioni, dobbiamo il rifiorire della nostra foresta, ridotta allora in condizioni di trascuratezza. Nel museo è esposta una raccolta delle principali specie forestali spontanee o introdotte in Italia. Gli esemplari secchi incorniciati, sono corredati di una cartina con l'indicazione dell'areale italiano, e con una breve descrizione dei principali dati stazionali ed ecologici della specie. Oltre a gigantografie di flora e fauna dell'Appennino, sono esposte sezioni di tronchi di alberi, caratteristici legni intaccati da insetti o da altri parassiti e una piccola collezione di campioni di legno di specie forestali presenti nel Parco. Sono illustrati i principali aspetti delle foreste demaniali e in particolare della Riserva Naturale Integrale di Sasso Fratino. In proposito sono esposte foto, gigantografie, un plastico della geologia del territorio, campioni delle rocce tipiche, profili pedologici e loro descrizione. Nelle vetrine al centro di una sala sono raccolti campioni di insetti tipici dell'Appennino (in parte offerti da ricercatori e in parte raccolti e preparati dal personale forestale).Alle pareti sono esposti trofei di alcune specie di ungulati (trovati morti in foresta) presenti in queste zone
Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi
L'idea di un parco delle Foreste Casentinesi è, se non antica, almeno molto vecchia e in una pubblicazione del 1915 un dirigente forestale suggeriva di pensare a Sasso Fratino e alla Lama come a riserve da tutelare per i valori estetici e del paesaggio, oltre che economici. Forse è un bene che il parco sia stato istituito solo nel gennaio 1991, perché negli ultimi settant'anni le Foreste Casentinesi sono state rinvigorite, ampliate, rimboschite, allargando il bosco sugli ex-coltivi del Casentino, recuperando le pendici spogliate della foresta del Corniolo, ricostruendo, dopo i tagli ottocenteschi per la produzione di carbone vegetale, le magnifiche fustaie di Faggio attorno a Badia Prataglia.. Al posto dei flebili poteri dei Parchi prima della legge quadro del dicembre 1991, si è allargata la proprietà statale e poi regionale, ereditando la cultura forestale dei Camaldolesi e le terre dei Lorena, e la piena disponibilità dei boschi assieme ai pubblici investimenti ha regalato all'Italia e al mondo più di 11.000 ettari di magnifiche foreste, coltivate con l'ingegno dei tecnici, il sudore di migliaia di operai e la volontà di chi spera nel futuro. Oggi il parco cavalca con i suoi 35.170 ettari il crinale appenninico, include due regioni (Toscana ed Emilia Romagna), tre provincie (Arezzo, Firenze e Forlì) e undici comuni. Il territorio del Parco è suddiviso in tre zone:
* zona 1: "Conservazione integrale"
* zona 2: "Zona di protezione"
* zona 3: "Tutela e valorizzazione"
Badia Prataglia oggi si trova proprio al centro, nel cuore del Parco Nazionale, nella zona 2 "Zona di protezione", rappresenta il più importante centro di villeggiatura e il crocevia per numerose escursioni. Il Parco inoltre racchiude terre che erano fiorentine e toscane fino al 1924, offre al visitatore non solo boschi, animali, paesaggi, ma prima di tutto la storia di un mondo in cui l'uomo da mille anni costituisce un soggetto indistinguibile dal resto dell'ambiente, una presenza da anni matura per considerare il bosco risorsa culturale e non solo produttiva e turistica. In questo Parco, conteso fra un Casentino - che I'ha sempre posseduto e gestito in nome e per conto di Camaldoli e Firenze - ed una Romagna - che oggi lo sente come nuova ricchezza e riscatto culturale, corrono caprioli, bramiscono cervi, volano silenziose le aquile, mentre il lupo osserva i suoi territori. II turista non è specie nuova, anzi è stato accolto da secoli nei suoi pellegrinaggi a Camaldoli e alla Verna, nei pericolosi viaggi oltre la giogana appenninica verso Venezia e Roma: il nuovo turista verrà accolto con calore e amicizia, nelle strutture adeguate a viaggiatori più esigenti dei pellegrini di un tempo, ma saranno soddisfatti solo se partiranno con un poco di comprensione della storia di queste terre e genti e la voglia di tornare a scoprirla. Quando saluterete un abete slanciato verso l'alto, non ringraziate solo Dio e i casi della natura, ma anche le mani che lo hanno piantato, curato, tagliato e ripiantato per secoli, scrivendo nel terreno e col linguaggio degli alberi la storia che altri hanno scritto su pagine di carta.
Per rendere più conveniente e rapido il trasporto di legname tagliato nel versante romagnolo delle Foreste Casentinesi nel 1900 il Cav. Tonetti e quindi la Società Anonima Industrie Forestali, proprietari della Foreste dal 1900 al 1914, costruirono una ferrovia Decauville di quasi 20 km. dalla Lama al Cancellino. Essa seguiva lo stesso percorso della stradella che collega ancora oggi queste due località. La stessa casa al Cancellino fu costruita in quel periodo per servizio come stazione di arrivo della Ferrovia e del ricovero delle piccole locomotive. Con questa ferrovia veniva esboscata la legna del versante romagnolo che prima doveva invece risalire, trainata dai bovi ripide Vie dei Legni. La legna, superato il crinale dell'Appennino, discendeva il versante Toscano sino a Pratovecchio e a Poppi. La Ferrovia ha funzionato anche successivamente quando la Foresta diventò proprietà dello Stato. I vagoncini della ferrovia erano trainati da piccole locomotive a vapore alimentate a legna. Ogni viaggio la locomotiva trasportava 3 ÷ 5 mc. di legna ed al massimo faceva 3 viaggi al giorno lungo il percorso tra la Lama e il Cancellino. In località Pian della Saporita c'era il rifornimento di acqua e legna, in tale località vi era anche l'unica possibilità di scambio trai convogli provenienti da sensi opposti, ciò grazie al raddoppio dei binari. Dal Passo Lupatti al Cancellino, tutto in leggera discesa la marcia dei carrelli doveva essere rallentata da operai detti "frenatori". Durante il periodo di attività furono usate 3 locomotive che gli operai avevano chiamato: SABA, FIOIA e ARCHIANA (più grossa). Un altro tratto di ferrovia era programmato anche nella foresta Campigna, da Pian del Grado al Passo della Calla, ma non fu eseguito. La Ferrovia fu smantellata nel 1920 per l'avvento degli autocarri che permettevano un trasporto più economico. Testimonianza al Ponte Camera 14° km. della strada tra Cancellino e la Lama, i parapetti del ponte sono fatti con le rotaie della vecchia ferrovia. Ancora, un pezzo dei binari è custodito al Museo forestale "Carlo Siemoni" di Badia Prataglia e una vagoncino con binari si trova proprio al Cancellino
MOGGIONA
Le origini
Il paese di Moggiona sorge su uno sperone roccioso al centro di una piccola valle chiusa, a circa 700 metri sul livello del mare. Probabilmente le sue origini sono analoghe a quelle degli insediamenti di sommità di epoca preromana, caratteristici abitati d'altura posti lungo le vie di comunicazione e a difesa dei pascoli di montagna. I resti di uno di questi centri, quello di Poggio Tondo, sono stati scoperti a pochi chilometri da Moggiona lungo un’antica via che da Pratovecchio conduce verso il crinale appenninico. Un’altra antica via di comunicazione è quella che dal fondovalle risale il corso del torrente Sova, che nasce ai piedi del paese. Numerosi sono nella valle della Sova, come in altre parti del Casentino, i toponimi di origine etrusca: Sparena, Lierna, Avena, Bucena. Lo stesso Moggiona sembra derivare da un nome etrusco di persona.
Il centro storico del paese
I primi documenti
Le prime notizie certe su Moggiona risalgono all'anno 842 d.C.: il vescovo d'Arezzo Pietro I istituisce la Canonica Aretina e la dota di alcuni possedimenti, fra i quali la piccola corte ad Moionam, retta da un certo Urso. Negli anni successivi questa donazione fu confermata più volte: in un diploma firmato nel duomo di Arezzo da Ugo e Lotario, re d'Italia, in data 14 Marzo 933; ed in un diploma del 10 Maggio 963, firmato da Ottone il Grande. Grazie a questi documenti Moggiona può vantare il primato di essere il paese del Casentino con le reminescenze storiche più vetuste. Documenti successivi dei primi anni del XI secolo attestano il possesso di beni e diritti sul paese ai monaci di Badia Prataglia.
Moggiona e Camaldoli: nel 1012 il monaco ravennate San Romualdo fonda, a pochi chilometri da Moggiona, l'Eremo di Camaldoli. Da questo momento in poi la storia del paese rimane legata a quella di Camaldoli e dell'Ordine Camaldolese. Già nel 1073 il Preposto della Canonica di Arezzo concede agli eremiti di riscuotere a Moggiona, come tributo, le decime del pane, del vino e degli ortaggi. Nel XII secolo i Camaldolesi acquistano il paese dalla Canonica, e successive donazioni da parte di fedeli accrescono i possedimenti degli eremiti nella zona. Anche i Conti Guidi di Romena vantano in quegli anni diritti sul paese, ma vi rinunciano nel 1146, in cambio del pagamento da parte degli eremiti di una tassa annuale (un tributo che ancora risulta pagato due secoli dopo, nel 1346). L'ultima, definitiva, rinuncia dei conti Guidi a Moggiona risale al 1368.
Il Comune di Moggiona e la Contea
Nel 1269 la comunità di Moggiona, su consiglio dei monaci Camaldolesi, si dota di un proprio ordinamento. Dopo essere stati presi sotto protezione dal Comune di Arezzo all'inizio del XIV secolo, nel 1382 l'Eremo di Camaldoli e gli uomini di Moggiona si affidano alla Repubblica Fiorentina: il 20 Ottobre il parlamento del paese, riunito in assemblea nella chiesa, approva un nuovo statuto, che viene poi ratificato il 22 Novembre a Firenze dalle autorità della Repubblica. Per l'occasione paese ed Eremo vengono presi sotto protezione perpetua da Firenze, sottostando l'accordo ad una serie di capitolazioni. Grazie all'accomandigia fiorentina il territorio sotto il controllo dei Camaldolesi (che include, oltre a Moggiona, il centro abitato di Badia Prataglia) gode di una serie di autonomie ed esenzioni fiscali. Col passare degli anni il priore generale dell'ordine assume il titolo di conte e la stessa amministrazione della giustizia, prima affidata al podestà di Bibbiena, passa al cancelliere dei monaci. Intorno al 1645 viene istituita la Compagnia del Santissimo Sacramento di Moggiona, una compagnia di laici che tuttora esiste. La contea viene infine sciolta, insieme a molte altre vestigia del feudalesimo in Toscana, dal Granduca Pietro Leopoldo: il 2 Settembre 1776 Moggiona ed il suo territorio vengono aggregati alla comunità di Bibbiena. Passerà poi alla Comunità di Poppi il 1o Novembre 1778: come si legge nell'atto granducale, questo avviene non tanto per la vicinanza, come ancora per una maggiore facilità di accesso al nuovo capoluogo. Da allora Moggiona ed il suo territorio fanno parte del Comune di Poppi (con una breve parentesi durante l'occupazione napoleonica, in cui Moggiona viene di nuovo assegnata alla Mairie di Bibbiena).
Moggiona nel 1788: "luogo principale della soppressa contea di Moggiona, ora poverissimo e semidiruto". Particolare dalla "Veduta delle Alpi di Camaldoli e di Moggiona dalla parte della Sova nel Casentino" (da "Raccolta delle principali vedute degli Appennini del Mugello, Casentino e Romagna osservati dai punti più favorevoli sì dalla parte del Mare Mediterraneo, sì dall'opposta dell'Adriatico", 1788-1799)
L'economia nel 1800 ed il mestiere del Bigoncio
Probabilmente con la soppressione della Contea le condizioni economiche di Moggiona e dei suoi abitanti peggiorano. In una stampa della fine del XVIII secolo la legenda descrive il paese come "luogo principale della soppressa contea di Moggiona, ora poverissimo e semidiruto". Nel 1833 il Repetti scrive che "gli abitanti di Moggiona traggono una misera sussistenza dai lavori di faggio per barili, bigonce ed altri utensili [...]". Sicuramente è questa del bigonaio una delle attività principali del paese: gli artigiani di Moggiona non solo costruiscono barili e bigoni (recipienti per il trasporto delle uve) ma si occupano anche della loro manutenzione, recandosi periodicamente nelle fattorie del Chianti. Moggiona diventa rinomata nella zona per la sua attività artigianale e questo porta forse ad un miglioramento delle condizioni del paese, almeno rispetto a quelle di altri piccoli centri del Casentino che si basano solo su agricoltura e pastorizia. Contadini e pastori non mancano comunque a Moggiona, e numerose sono le persone che si trasferiscono in Maremma in inverno per la transumanza.
Moggiona in un disegno tratto dalla "Guida illustrata di Camaldoli e suoi dintorni"
di Ranieri Agostini, 1893
Le Guerre Mondiali: Nella prima metà del XX secolo Moggiona paga un pesante tributo in vite umane. Nel conflitto del 1915-1918 ben 13 sono i soldati caduti (ai quali se ne aggiunge un altro morto in Libia durante la guerra con la Turchia del 1911-1912). Nel secondo conflitto sono 5 i militari caduti o dispersi, ma più atroce è il bilancio delle vittime civili: il 26 agosto 1944 la maggior parte degli abitanti viene fatta sfollare dal paese, che si trova a pochi passi dalla linea di difesa tedesca, la Linea Gotica. Le poche persone rimaste subiranno l'indicibile violenza del 7 Settembre: 18 persone (in maggioranza anziani, donne e bambini) vengono uccise inspiegabilmente in una sola notte. Altri 4 civili perdono la vita in seguito al passaggio del fronte.
Moggiona in una cartolina del 1937
La Storia Recente
Nel dopoguerra, con la ricostruzione, il paese incomincia a dotarsi delle prime comodità moderne. Agli anni 50 risale la costruzione dell'acquedotto: mentre prima gli abitanti attingevano alla vecchia fonte del paese ora l'acqua corrente arriva in ogni casa. Purtroppo il progresso porta anche l'invenzione delle materie plastiche, che determinano, negli anni 60, la fine del vecchio mestiere del bigonaio. Gli artigiani del paese dovettero riconvertire la loro abilità prima nella costruzione di oggetti di arredamento e poi di mobili. Come tutti i piccoli centri di campagna e montagna, Moggiona è poi colpita da un forte spopolamento, che porta a dimezzarne la popolazione in poco più di un ventennio. Il paese rimane comunque vitale: a partire dagli anni 70 è attiva un'associazione di volontari, che organizza prima la Sagra delle Brici e poi la Festa del Fungo Porcino. L'attuale Pro Loco è l'erede di queste attività iniziate più di trent’anni or sono. Infine ricordiamo nella storia recente un anno particolare, il 1993: in quell’anno viene istituito il Parco Nazionali delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, al cui interno il paese viene a trovarsi; il 17 settembre dello stesso anno, inoltre, Moggiona riceve la gradita visita di Sua Santità Papa Giovanni Paolo II, durante un suo viaggio all'Eremo di Camaldoli.
Papa Giovanni Paolo II saluta i fedeli lungo il viale della rimembranza (17 Settembre 1993)
Vista da ovest del paese, ripresa da una vecchia cartolina degli anni 60
EREMO DI CAMALDOLI
L'eremo di Camaldoli, a circa 1104 metri d'altezza, è completamente immerso nella foresta monumentale del Parco delle Foreste Casentinesi. La chiesa, rifatta nel XVIII secolo in forme barocche, custodisce una pala robbiana, “Madonna in Trono con Bambino e Santi” di Andrea della Robbia (XV sec.). Da visitare la cella di San Romualdo, il complesso dell'Eremo e l'Aula Capitolare con un pregevole soffitto ligneo.
Fù fondato da San Romualdo nei primi anni dell’ XI secolo ed è la casa madre della Congregazione Benedettina dei Camaldolesi. Si trova nell'omonima località di Camaldoli (AR).
San Romualdo aveva fondato, durante la sua vita, molte comunità eremitiche. Quando giunse fra il Pratomagno e il Monte Falterona in mezzo alle foreste casentinesi decise di fondare un eremo in una radura detta Campo di Maldolo (Campus Maldoli).
Incoraggiato dal vescovo di Arezzo Tedaldo, sotto la cui giurisdizione si trovava quella località, vi eresse 5 celle e una chiesetta che furono il primo nucleo dell'eremo.
Oggi l'eremo di Camaldoli è uno dei due polmoni con cui respira la comunità monastica ivi presente: a poca distanza l'uno dall'altro sorgono infatti il monastero e l'eremo, i cui monaci appartengono alla stessa comunità, vivono la stessa regola, hanno lo stesso abate, ma seguono stili di vita in parte diversi, dando maggior spazio alla vita comunitaria presso il monastero e privilegiando il raccoglimento personale presso l'eremo. I monaci che vivono all'eremo sono attualmente dieci.
L'eremo, interamente cinto da un muro di sasso, si affaccia sulla strada con un portone, attraverso il quale si accede al cortile interno. Dal cortile si possono visitare:
Una cancellata separa il cortile dalla zona più interna riservata esclusivamente ai monaci: qui ognuno di essi ha la propria cella, costituita da un piccolo edificio in muratura, separato dalle celle degli altri monaci.