442 |
Fra Romagna e Marche fra valle dell'Uso e Montefeltro |
442 |
MONTETIFFI
MONTE TIFFI o ITIFFI (Montitif), frazione, già appodiato, del comune di Sogliano al Rubicone alla destra dell'Uso, 20 chilometri al sud di Cesena. Si parla di :Monte Tiffi fin dal sccolo XII e nel 1295 vien chiamato Monte Tifo. Nel principio del secolo XIV appare il Castrum Montis Tifforum quale possesso dei Brancaleoni della Massa Trabaria. Nel 1371 questo castello con girone in sasso fortissimo e 35 focolari apparteneva all' Abbazia di Monte Tiffi, la quale era anch’essa luogo assai fortificato e poi fu abbandonata.Si vedono ancora a distanza le rovine del castello in cima a un colle situato al nord del monte della Perticara. La parrocchia attuale di San Leonardo di Monte Tiffi con 494 anime appartiene alla diocesi del Montefeltro.
Emilio Rosetti La Romagna – Geografia e Storia
Ulrico Hoepli Milano 1894
MONTETIFFI
è certamente il più importante borgo dell’alta valle dell’Uso, luogo di congiunzione tra la Romagna ed il Montefeltro. Arrivano leggere le voci dalla pianura, mentre la montagna si fa sentire con determinazione. Ai piedi della salita che conduce all’ingresso del borgo di Montetiffi si trovano due antiche chiese che sorgono nel luogo in cui gli abitanti di Montetiffi seppellivano i propri defunti:·
Chiesa della Madonna delle Nevi·
Nucleo oratoriale di San Luca, senz’altro molto più antico di quanto le vestigia architettoniche possano far pensare.Entrambi i due edifici probabilmente erano già esistenti in
epoca medievale, anche se oggi presentano in prevalenza elementi del settecento.
Sulla sommità è situata, oltre alle altre due chiese, l'Abbazia Benedettina di
San Leonardo, una delle chiese romaniche più importanti della Diocesi di Rimini.
È costruita su uno sperone roccioso che domina la valle, nel cuore del
Montefeltro. E’ stata edificata dai montetiffesi verso la metà del secolo XI in
onore dei santi Martino e Bartolomeo e donata ai monaci di san Benedetto. I
muri, di notevole spessore, sono in pietra concia come parte del soffitto,
’abside è fondata sulla roccia. L’abbazia fu trasformata nel 1384 per assumere
la funzione di protezione militare. Il possente fabbricato è disposto su tre
piani, mentre gli spazi più bassi, aperti a botola sulle cantine, sono scavati
nel ventre della montagna.
La torre campanaria è collocata a lato della chiesa, dalla parte dello
strapiombo, ed è una costruzione massiccia ma slanciata allo stesso tempo. È
dotata di due ordini di monofore a tutto sesto, il più alto dei quali è di
dimensioni maggiori, e appartiene alla cella campanaria.
L'interno, solido e severo, è ad una sola navata, costruito in pietra a conci
squadrati. Il presbiterio mantiene una copertura a volta con abside, la restante
parte della navata è ora coperta a capriate, nonostante si vedano gli attacchi
di arcature che fanno presumere la precedente totale copertura a botte. Si
possono osservare in una nicchia e nella sacrestia del presbiterio importanti
affreschi di scuola trecentesca, in un’altra nicchia è conservato l’antico
stipite dell’altare, risalente al 1120; si trovano inoltre epigrafi medievali di
buona qualità.
Il borgo conserva parte delle sue caratteristiche medievali, alcuni edifici sono
costruiti sui resti delle strutture difensive del castello, diverse torri di
guardia proteggevano Montetiffi.
Il masso su cui sorge Montetiffi degrada fino al torrente Uso e un sentiero
inciso nella roccia collega il borgo al corso d’acqua; in questa zona si trovano
il ponte romanico e il mulino Tornani. Il ponte, ad arco a tutto sesto, era
l’unico collegamento di quest’area tra la Romagna e il Montefeltro. Attualmente
necessita di urgenti restauri; stesso problema per il mulino Tornani, usato fino
agli anni ‘50 per la produzione della farina. Al suo interno è ancora possibile
osservare le macine e le canalette dove scorreva veloce l’acqua. Il ponte e il
mulino sono inseriti in un ambiente unico dove lo scorrere millenario dell’acqua
ha scavato la roccia formando cascatelle, laghetti, marmitte.
Montetiffi è anche e soprattutto conosciuto come il paese dei tegliai. Il "testo
di porosa argilla" su cui viene cotta la piada, il pane della Romagna.
Così il poeta Giovanni Pascoli ricorda questo mestiere millenario che ha la forza della roccia:
"...Fosse andato pur là dove è maestra gente
in far teglie sotto cui bel bello
scoppietti il pungitopo e la ginestra.
A Montetiffi ....!
L’arte è stata tramandata pazientemente di generazione in generazione. Dei numerosi e affermati tegliai della Valle dell’Uso, oggi resta solo Leone Reali.
Al Tègi e i Tiger dè Mònt
Gruppo Culturale Rontagnanese
Fin dall'età della pietra l'uomo ha avuto l'accortezza di
cuocere alcuni tipi di cibi prima di mangiarli, giudicandoli, forse, più
appetibili dei rispettivi non cotti.
Gli arnesi per l'operazione di cottura, con l'ausilio del fuoco, in un primo
tempo dovevano essere alquanto primitivi e rudimentali.
«Si mischiano terriccio e polvere, ottenuta con sasso
marmorizzato, nell'acqua entro una buca, riducendoli alla consistenza di una
malta, questa la si mette sopra un frullo che poggia su un perno fatto con un
bastone a due punte di cui una viene conficcata nel terreno e l'altra viene
incuneata nell'apparecchio stesso.
La malta viene appianata sul piattello con le mani, poi girando coi piedi nudi
il frullo si ottiene l'utensile!!.… »
Sembra la descrizione del lavoro di un uomo primitivo intento
a procurarsi un utensile che gli permetterà di cuocere una sorte di pane
primitivo fatto da una mistura di acqua e farina, ma non è che la descrizione
che 60 anni fa faceva il Soglianese Pio Macrelli riferendosi al lavoro svolto
dai teggiai di Montetiffi……. Molto è stato scritto sulla piadina e sulla sua
importanza nell’alimentazione delle popolazioni contadine della Romagna.
Viceversa, tranne alcune eccezioni, pochissimo è stato scritto sulla tecnica e
sulla storia sommaria del mestiere di tegliaio che è limitato ad una piccola
località ove fin dall'epoca più antica si fabbricano le teglie, ovvero
Montetiffi.
Sono secoli infatti che i teggiai di Montetiffi «creano» le teglie, ma purtroppo
questi umili artisti della nostra civiltà contadina non ci hanno lasciato
memorie. Essi non costruirono monumenti famosi ne crearono capolavori d’arte, ma
anche la teglia per la nostra civiltà contadina è e rimarrà sempre un «grosso
monumento». Le origini delle teglie e dei tegliai rimangono a noi oscure
come oscuri rimangono quei secoli così a noi lontani.
Grossa è l’analogia fra le nostre teglie e certi «cocci romani» conservati nel
museo archeologico di Sarsina, indice della presenza nella nostra zona di
artigiani teggiai almeno sin da quell'epoca.
D'altra parte anche agli stessi romani la «piada» non era sconosciuta, tanto che
soprattutto in un certo periodo storico a noi vicino la piada venne considerata
come «il pane della nostra missione o del nostro destino, impasto della giovane
Roma tra marce di legioni e passi di triari, nel vaticinio della grandezza
imperiale». Se la piada era conosciuta fin da allora anche la teglia o «testo»
doveva essere conosciuta in quel periodo storico. La presenza di teggiai nella
nostra zona potrebbe essere confermata da quei suddetti «cocci romani». Tèsto è
un antico vocabolo derivato dal latino «Testum» che significa coccio o frammento
di terracotta. In seguito verrà usato anche per indicare teglie di terracotta
con il bordo basso per cuocere vivande nel forno. Anche un semplice vaso di
terracotta per contenere l'acqua veniva chiamato testo.
Da questi oggetti di vario genere, ma tutti di terracotta, alla classica teglia
per cuocere la piadina romagnola il passo è corto.
Dalle documentazioni consultate risulta che, almeno dopo il 1860, testo o
tegghia veniva usato indifferentemente, mentre ancora il vocabolo
teglia non appariva. Si suppone che «Testo» o «fabbricatori di Testi» era
più un linguaggio per persone di una certa cultura (come ad esempio l’abate che
ha scritto i documenti di nascita e di morte da noi consultati); mentre «tegghie»
e «tegghiai» erano termini più popolari, derivante dal termine dialettale «Tègi».
Da quei tempi remoti la fabbricazione di attrezzi culinari è sempre andata
evolvendosi. Ma sembra che, per l'arte di fabbricare le teglie il tempo si sia
fermato, e fino a pochi anni or sono la tecnica usata da questi artigiani sembra
essere la stessa usata da millenni dagli antenati dei «tegliai».
Oggi i fabbricatori di teglie per cuocere la piadina romagnola sono rimasti solo
due confinati a Montetiffi, dove da secoli vivevano i maestri tegliai. Seppure
numerosi sono nell’area feretrana i reperti archeologici medioevali che
testimoniano la presenza in loco della teglia e dei tegliai, non si conoscono ad
oggi documenti di quell’epoca che parlino specificatamente delle teglie di
Montetiffi.
Uno dei primi documenti fino ad ora ritrovati, che si riferisce direttamente
all'attività dei teggiai di Montetiffi è del 1527. Il 2 luglio di quell'anno
Sigismondo Malatesta emanò un decreto protezionistico con cui «per beneficazione
dei suo stato et soi sudditi» proibì l'importazione «in la Città di Arimino
overo suo Contado et distrecto» di «vaxi de terra forestieri facti fora del
dominio», «eccetto li vaxi de terra d’ogni sorte vel qualità che fossino facti
et conducti da Montetiffi, vel la Puglia, li quali liberamente si possono
vendere».
E l’eccezione di Montetiffi è dovuta al fatto che ivi si fabbricassero certi «vaxi»
che non venivano prodotti in quel luogo, per i quali occorreva quell'arte e
quella «terra» che solamente in quei posti era conosciuta. Già dal XVI secolo
quindi i teggiai di Montetiffi si recavano «alla bassa» per smerciare i loro
prodotti come lo dimostrano anche altri documenti «f iscali». Così nel 1579
mentre «...vasi de terra, taglieri, laveggi, careghe, scattole... et altri
simili che vengano per vendersi... in piaza (a Rimini) paghino quattrini 8 per
ducato; pignatte, testi, orci, mortai andando per passo paghino 3 per
soma, ma vendendosi nella città, non paghi cosa alcuna». Si racconta che quando
questi teggiai andavano a vendere i loro prodotti nel Riminese, essi andavano
fieri di udire il suono dell'attuale campana di Montetiffi (sec. XVII) dal ponte
di Tiberio. A Montetiffi, manco a dirlo, i teggiai godevano di una grande
stima, tanto più che essi erano allora assai numerosi. A dedicarsi a tale
mestiere erano soprattutto gli abitanti del castello, come rilevasi anche dagli
atti consigliari. Così ad esempio nel consiglio leggesi «il Castello creduto per
una grossa terra non contenere più di nove famiglie tutti Miserabili che si
moiono di fame, e solo campano coll'arte de Testi... ».
La sopracitata descrizione non è comunque presumibilmente dei tutto veritiera,
trattandosi di una supplica al Cardinale Legato di Romagna per l'esenzione al
pagamento di certi gravami... A proposito poi di gravami, questi «Artisti De’
Testi» pagavano alla Comunità di Montetiffi le imposte al pari dei possidenti,
evidentemente in relazione al numero delle teglie smerciate. Così quando il 23
marzo 1732 i consiglieri della Comunità di Montetiffi, ovvero Francesco Reali,
il Maestro Andrea Pescaglia, Sebastiano Testi, Giovanni Lami, il tenente Paol’Antonio
Reali, Battista Carigi e Paol’Antonio di Girolamo Reali, e Giambattista Testi,
decretarono il riparto delle tasse, e dopo «maturo discorso risolvettero d'imponere
il dovuto gravame sop.a q.sti ARTISTI TEGGLIARI», poi ai «lavoratori di diverse
possessioni», al Comune di S. Paolo ed infine ai possidenti.
I Tegliai di Ville di Montetiffi
Gruppo Culturale Rontagnanese
La storia dei tegliai delle Ville di Montetiffi (borgo a nord
del fiume Uso) è legata alla famiglia Piscaglia. Il primo Piscaglia che si sia
dedicato all'arte di fabbricare testi, di cui si ha memoria, è il bisnonno di
Piscaglia Pierino, detto «Gialdini» il quale ebbe 2 figli che continuarono il
mestiere paterno, mestiere che nonostante le apparenze non era privo di rischi,
anzi a causa di ciò i due fratelli fecero una tragica fine. Il primo di nome
Piscaglia Salvatore morì durante una bufera invernale nei pressi di Ca’
Domenichino di Rontagnano durante il ritorno da una solita spedizione di vendita
verso Sogliano e Bagnolo. Fu una sfortunata fatalità ad ucciderlo, in quanto
ritornando a casa passando per Strigara vide un bellissimo esemplare di asino
molto utile nel proprio lavoro e pur avendo già una «Bricca» (asina) egli fece
un baratto con un carraio di Curto (Vignola di Sogliano).
Ma giunto appunto nei pressi di Ca’ Domenichino sia per la stanchezza, il
freddo e la grande tormenta e forse anche per un po’ di vino bevuto in più, le
forze lo abbandonarono e fu trovato dopo circa una settimana a pochi metri più
in basso della strada cadavere in un fosso. Se in precedenza il povero Salvatore
si fosse tenuta la sua asina molto probabilmente questa sarebbe corsa verso le
Ville di Montetiffi mettendo sull’avviso i famigliari della disgrazia,
permettendo così di poter avviare le ricerche. Alcuni testimoni sostengono di
aver sentito grida di aiuto confuse dall'imperversare della bufera. Tutto questo
accadeva nell'inverno dei 1941.
Sorte non migliore non era toccata al fratello Giovanni Piscaglia che, 7 anni
prima, mentre stava tagliando una grossa quercia era rimasto ucciso da un ramo
della stessa che aveva improvvisamente cambiato direzione di caduta. La quercia
in questione sarebbe servita da combustibile per alimentare il fuoco per la
cottura delle teglie precedentemente impastate. Il mestiere era già stato però
tramandato da Giovanni ad Antonio suo figlio. Antonio era il padre di Piscaglia
Pierino attuale tegliaio delle Ville di Montetiffi, che nella piccola bottega
artigiana lavora fino ai giorni nostri.
Purtroppo Piscaglia Pierino non ha figli e quindi molto probabilmente la storia
dei tegliai a nord del fiume Uso finirà qui.
Prima dell'unità d'Italia alle Ville di Montetiffi anche la famiglia Saragoni
esercitava il mestiere di «fabbricatore di testi» ma di essa non si ha più
memoria.
Testi prodotti da:
Gruppo Culturale Rontagnanese Email: sartangelo@libero.it.
Telefono: 3386027211
TALAMELLO
(Talamél) comune del mandamento di Sant’Agata Feltria, circondario d’Urbino, provincia di Pesaro-Urbino, diocesi del Montefeltro, con una superficie montuosa di ettrari 4753 ed una popolazione di 5272 abitanti, divisa nelle frazioni e parrocchie di:
In questo comune si trovano
molti mulini di polvere pirica, ed una fonderia e raffineria per lo zolfo, il
quale abbonda nella vallata della vicina Perticara.
Il paese di Talamello si trova in cima
a un colle, alto 428 metri, alla sinistra del Marecchia e a una distanza di 46
chilometri a ponente-libeccio di Rimini; però il centro comunale è situato più
comodamente in basso nel borgo di Mercatino dove la strada del Marecchia volge
per la Perticara.
Nel 1371 Castrum Talamelli con Rocca e 65 focolari era posseduto dal
vescovo di San Leo. Nel 1463 Paolo II papa lo diede in feudo al forlimpopolese
Antonello Armuzzi-Zampeschi, dopo la morte del quale ritornò al Papa.
La parrocchia di San Lorenzo di Talamello, diocesi del Montefeltro, conta
1158 anime. La cappellina del cimitero comunale possiede preziosi affreschi del
1425 dovuti ad Antonio Ferrarese
Emilio Rosetti La Romagna – Geografia e Storia
Ulrico Hoepli Milano 1894
Antico
borgo collinare della media Val Marecchia, deriva il nome da Thalamos (grotte,
abitazioni). Di origini anteriori al XI secolo, appartenne ai Della Faggiola e
poi ai Malatesta che ne fecero una loro roccaforte nella lotta contro i
Montefeltro (sec. XV).
E’ possedimento della chiesa feretrana fino al 1296, quando il ghibellino
Maghinardo Pagani, conducendo riminesi e montefeltrani assieme (caso raro nella
storia di queste terre) riuscì a conquistarlo. Il dominio durò poco e Talamello
venne di nuovo soggiogato a Roma. Fu infeudato dal sommo pontefice a Uguccione
della Faggiola, entrando sotto il controllo della casata. E’ il cardinale Egidio
Albornoz che se lo riprende nel 1355. Nel 1390 il castello viene venduto a
Galeotto Malatesta e poi nel 1416 confermato a Carlo Malatesta. Pio II lo
infeuda, come altri borghi vicini tolti a Sigismondo Pandolfo Malatesta, ai
Guidi di Bagno e ai Malatesta di Sogliano. Con essi (1490) ha inizio la
produzione di polvere da sparo nei mulini di Talamello che si concluderà nella
seconda metà del secolo XX, dopo circa 500 anni di attività.
Sulla piazza principale del borgo, abbellita da una
grande fontana, sorge la seicentesca parrocchiale di S. Lorenzo che custodisce
all’interno una preziosa Croce dipinta attribuita a Giovanni Baronzio da Rimini
o ad altro esponente della scuola riminese del Trecento. Ogni Lunedì di
Pentecoste,viene portato in processione e richiama fedeli da tutta le zone
limitrofe. Nella stessa chiesa sono inoltre una statua
lignea policroma (“Madonna con il Bambino”) del sec. XV e un Crocefisso Ligneo
del sec. XVI. Di grande interesse artistico la “cella” del Cimitero, interamente
decorata da affreschi di Antonio Alberti da Ferrara (1437). Nella chiesetta di
Collina si conserva invece un affresco (“Madonna con il Bambino”) di fine
Trecento o primi del Quattrocento.
Il prestigioso patrimonio pittorico di Talamello è stato, nel 2002,
arricchito con l’apertura del Museo-pinacoteca Gualtieri “Lo
splendore del reale”, costituito da oltre 40 tele che il pittore di
origini talamellesi Fernando Gualtieri ha donato al Comune.
Per chi capita in paese é d’obbligo una sosta alla grande fontana che abbellisce
la piazza del paese e la camminata boscosa fino al Pincio, dove, tra castagni,
pini e ricco sottobosco, si può ammirare tutta la Valmarecchia. Curiosi sono i
due depositi di polvere da sparo a forma ottogonale, dei secoli XIX e XX (loc.
Campiano), unici testimoni sopravvissuti al termine della produzione.
Talamello è sede di importanti iniziative di valorizzazione di prodotti tipici.
Ad Ottobre la Fiera delle Castagne della Valmarecchia, mentre in
Novembre Talamello diventa la capitale del formaggio di fossa,
con una bella fiera dedicata al prodotto: questa caciotta, tipica della zona,
viene fatta riposare e maturare in fosse ottenute nel banco di roccia arenaria
su cui è fondato il paese stesso; dopo tre mesi di stagionatura la caciotta è
pronta ad essere consumata e prende il nome di L’Ambra di Talamello (così
"battezzata" dal poeta Tonino Guerra), considerati gli odori e i sapori con cui
si arricchisce. Questa usanza di mettere il formaggio nelle fosse non nasce con
intento culinario: tutto il procedimento pare risalga al medioevo quando gli
allevatori della zona dovevano nascondere i formaggi ai predoni e ai ladri; o
più semplicemente era necessario che li conservassero per un periodo piu’ lungo
senza che questi seccassero eccessivamente. In questo caso si perde un poco di
poesia, ma il sapore di questo prodotto rimane sempre impareggiabile.
Talamello è noto anche come patria del musicista Amintore Galli,
autore dell'Inno dei Lavoratori, che insieme a Bandiera Rossa e
a L’Internazionale rappresenta uno dei tre inni più significativi del
movimento operaio italiano.
La "CELLA" di TALAMELLO (adiacente al cimitero)
Posta a metà strada fra la residenza vescovile di campagna e
quella entro le mura, la ‘Cella’ venne eretta e decorata per volontà del vescovo
di Montefeltro mons. Giovanni Seclani frate francescano (vescovo dal 1409 al
1444) residente nel castello di Talamello, come era già stato per due suoi
predecessori e come avvenne per il suo successore. Intitolata alla Beata Vergine
Maria, fu arricchita da un ciclo di pitture ad affresco, per le quali venne
chiamato Antonio Alberti da Ferrara, un pittore della corte montefeltrana,
residente in Urbino e attivo in particolar modo nel territorio dell’allora
contea. La cappella era preceduta da un portico, murato nel corso del secolo XIX,
portico che dava riparo ai pellegrini, ai viandanti, colti da stanchezza o dal
maltempo nei loro percorsi.
Il 2 luglio 1437, fu il giorno dell’inaugurazione, resa speciale da una grande
festa e da una notevole partecipazione popolare; fu il momento in cui tutti
finalmente ne poterono ammirare l’interno riccamente affrescato nella volta a
vela e nelle tre pareti perimetrali, con scene su due ordini separati da una
fascia con un’iscrizione in caratteri gotici.
La scena principale, sulla parete di fondo, raffigura la "Madonna in trono col
Bambino" ai quali, alla sinistra di chi guarda, San Francesco presenta il
vescovo Seclani (inginocchiato), mentre a destra compare S. Giuseppe; oltre
questa scena va ricordata quella della "Presentazione di Gesù al Tempio" (sulla
parete di sinistra, in alto, dove il pittore riproduce sul fronte dell’altare lo
stemma dei Malatesta di Rimini, verso i quali il vescovo Seclani (riminese
d’origine) era molto legato.
All’epoca signore di Talamello era lo stesso Sigismondo Pandolfo Malatesta, il
quale nel marzo dello stesso anno 1437, diede inizio ai lavori della Rocca
Malatestiana di Rimini.
A completare lo splendido ciclo d’affreschi, a partire dal registro inferiore,
vennero inserite la raffigurazione di 6 sante sul lato sinistro e di 6 santi su
quello opposto; nel registro superiore le scene de "L’Annunciazione" e
"L’adorazione dei Magi"; mentre nella volta e nei pennacchi vennero raffigurati
i quattro Evangelisti e i Padri della Chiesa.
La ‘Cella’ di Talamello rimane un luogo importante per l’arte del quattrocento,
ed uno dei rarissimi lavori firmati dal pittore Antonio Alberti da Ferrara,
giunti fino ad oggi.
A cura di Pier Luigi Nucci
Hanno scritto sulla ‘Cella’:
Da IL MONTEFELTRO 2 / Ambiente, storia, arte in alta Valmarecchia, Comunità Montana Alta Valmarecchia/Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro
Pier Giorgio Pasini, Testimonianze d’arte fra XIV e XX secolo
Il Quattrocento: Antonio Alberti
"…La Cella di Talamello, tutta rivestita di affreschi, ha
come protagonista una Madonna dell’Umiltà che campeggia al centro della
parete di fondo fra due santi e il committente, sotto ad una lunetta con l’Annunciazione.
Le linea che separa queste due figurazioni, costituita da una larga fascia che
contiene l’iscrizione dedicatoria, piega a semicerchio al centro, proprio
attorno all’aureola della Vergine, che grazie a questo artificio ha uno
straordinario risalto. Nella pareti laterali due teorie di santi, sei per parte,
in finte nicchie, sono sormontate da due lunette che recano la raffigurazione
dell’Adorazione dei magi e della Presentazione al tempio.
Nel soffitto a crociera sono simmetricamente disposti fra le costolature fiorate
gli Evangelisti e, nei pennacchi, i Dottori della Chiesa.
Si tratta forse del capolavoro della maturità di Antonio Alberti, che qui si
rivela capace di originali eleganze decorative e di acute osservazioni
naturalistiche; particolarmente nelle lunette si notano le attente descrizioni e
le notazioni di costume, ma anche la volontà di serrare le composizioni in ritmi
armoniosi modulati da architetture che scompatiscono lo spazio in variate
simmetrie; e nelle teorie dei santi si notino una monumentalità cordiale e
vivace, un’attenzione alla struttura fisica dei corpi e degli abiti ben lontane
dalla frivolezze ornamentali e dalla vacua decorazione della maggior parte della
raffigurazioni tardogotiche…"
PERTICARA
RACCONTI AL FUOCO DI BIVACCO: La Signora del bosco di Perticara
Il fatto che vi sto per raccontare, è accaduto veramente. E' accaduto a me, e io ne sono testimone, ed era in hike con me il mio amico e fratello di clan Mattia, Okapi Deciso. Io sono Samuele, e come è vero che il mio Totem è Ornitorinco Impetuoso, tutto questo è successo in una primavera lontana del secolo scorso. Poi è diventato una storia da raccontare al fuoco di bivacco.
Eravamo partiti per scendere dalla
cima del Monte Pincio, a quaranta chilometri da Rimini, dentro la Valmarecchia,
sopra la vecchia miniera di zolfo di Perticara, ed arrivare alla piccola
chiesetta di Madonna Piè di Monte. Avevamo presto iniziato a discendere lungo il
sentiero, ripido quanto lo possono essere i nostri Appennini. Era caldo, una
giornata primaverile di quelle che ti mostrano come sarà l'Estate. Il nostro
sentiero si snodava lungo il bosco che come un abbraccio cinge il monte
Perticara ed il monte Pincio, e trova il limite, seguito da campi incolti e non,
poco dopo la Cappellina che dovevamo raggiungere. Terminata la parte in discesa,
ci rimaneva solo un oretta di cammino fino alla piccola Pieve. Fu lì che la
incontrammo.
Era una signora di età indefinibile, poteva avere 30 come 60 anni, ed era
vestita in maniera assolutamente anonima. Si avvicinò con aria del tutto
naturale, e con la naturalezza che mostra il padrone di casa con un gradito
ospite ci rivolse la parola. Si presentò: disse di chiamarsi Silvana, ci tenne a
far notare che il suo nome aveva la stessa radice latina che significa "bosco,
selva", come quel bosco che ci raccontò di amare tanto. Ci parlò degli abitanti
di quella parte di valle, l'Alta Valmarecchia, che per anni se ne erano andati
in giro per l'Italia, a cercare fortuna, ma che ogni tanto, presi dalla
nostalgia, tornavano a far visita. Intanto camminavamo, e lei, che aveva un
piccolo mazzo di fiori in mano, ogni tanto si fermava a raccogliere un fiore da
terra, un rametto da un albero, per arricchire quello che già possedeva. Lo
faceva con estrema dolcezza, tanto che, stupiti, ci guardammo pensando la stessa
cosa: ne sembrava la regina.
Lungo il cammino, mi chiese di raccontarle qualcosa, e venimmo non so come a
parlare di un libro, "Il Piccolo Principe", che avevo letto da poco.
Disse di non conoscerlo, e mi chiese con tanta insistenza di raccontarglielo che
fui costretto a cedere. Iniziai, e man mano che andavo avanti era sempre più
tesa.
Intanto il mazzo di fiori era cresciuto sempre più.
Arrivai al termine del mio racconto quando eravamo ormai giunti dinanzi alla
cappellina: le raccontai di come il Piccolo Principe, per tornare a casa sua, fu
costretto a farsi mordere da un serpente velenoso … "Non capisci?”-disse il
Piccolo Principe- “non posso portarmi dietro il mio corpo, è troppo pesante...":
appena dissi queste parole, lei si fermò, ad occhi chiusi.
La rivedo ancora, come fosse qui davanti a me. Il mazzo le scivolò dalle mani e
cadde a terra. Tesa, ferma, pareva avere raccolto su di sé tutto il dolore delle
mie parole. Rimase così forse un minuto, poi, inaspettata, raccolse i fiori da
terra, e corse sulla scalinata della chiesina. Qui iniziò a tracciare strani
segni sulla pietra, e si dondolava, e saliva, ora in ginocchio ed ora in piedi,
come in uno strano rito. Baciò il crocifisso, vi lasciò i fiori.
Fece ancora strani segni per terra, ci guardò sorridendo come per salutarci,
corse via e sparì. Non dico che se ne andò, dico che sparì, scomparve. Per
essere precisi prese il sentiero, e dopo pochi attimi, nonostante noi l'avessimo
inseguita per cercare di capire chi o cosa lei fosse, non ci fu più.
Era difficile che si fosse nascosta, perché la cercammo e l'avremmo trovata, e
pure sul sentiero non c'era più. Noi discutemmo a lungo riguardo quanto era
successo, e ci ricordammo che, parlando del suo nome, ci aveva detto,
sorridendo, che Silvana "significa Abitatrice delle Selve". Io penso che lei
fosse la Signora di quel Bosco, che da tempo immemore si stende nella nostra
valle, e che noi la incontrammo mentre andava a fare omaggio al suo Signore, il
Signore del Cielo e della Terra.
Ancora oggi, quando mando a Perticara i ragazzi del mio Reparto per un’uscita,
non manco mai di raccontar loro quanto mi è successo, aggiungendo di
salutarmela, se dovesse loro capitare di vederla.
La devono trattare bene, perché è lei che protegge chi ama il suo bosco e loro
oramai sanno che se incontrano una strana Signora, che chiede loro di
raccontarle una favola, si tratta di Silvana, la Signora del Bosco di Perticara.
Se dovesse capitare anche a voi di vederla, siate buoni, raccontatele una
favola... le piacciono tanto.
Samuele Zerbini
da Esperienze e Progetti nr 169