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Nella Valmarecchia da Pietracuta a S. Leo

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San Leo

Nella media Valle del Marecchia, al centro della Regione storica del Montefeltro, su un masso imponente di forma romboidale con pareti strapiombanti al suolo, sorge San Leo. La placca rocciosa, di formazione calcareo-arenacea, è il risultato della tormentata genesi che ha portato alla formazione del paesaggio della Val Marecchia, nota ai geologi come Coltre o Colata della Val Marecchia. I limiti della placca, nel caso di San Leo, sono interamente identificabili e coincidenti con i dirupi e gli strapiombi; il contatto con le argille sottostanti è sempre evidente. Questa situazione rende San Leo un paradigmatico esempio ai fini della interpretazione della geologia locale e riassume, inoltre, notevoli fenomeni geomorfologici, caratteristici della Val Marecchia. La straordinaria conformazione naturale del luogo ne ha determinato, dall’epoca preistorica, la doppia realtà di fortezza munita per natura e di altura inaccessibile e perciò sacra alla divinità. L’antico nome Mons Feretrius è tradizionalmente legato ad un importante insediamento romano, sorto intorno ad un tempio consacrato a Giove Feretrio (Giove che “colpisce” perchè le spoglie del nemico caduto in battaglia venivano esposte in questo tempio). Pur non essendo in possesso di fonti in grado di attestare l’anno in cui i romani giunsero in questo luogo, possiamo affermare che, fin dal III secolo a. C., essi costruirono una fortificazione sul punto più elevato del monte, ma non munirono l’abitato di cinta murarie poiché la rupe è di per sé inaccessibile da qualunque lato. Sul finire del III secolo d. C., giunsero nel Montefeltro, dalla Dalmazia, Leone e il compagno Marino, ai quali si deve la diffusione del cristianesimo che si propagò rapidamente in tutta la regione circostante, fino alla nascita della Diocesi(1) del Montefeltro. Leone è considerato, per tradizione, il primo Vescovo di Montefeltro, anche se l’istituzione della Diocesi risale, probabilmente, al periodo fra VI e VII secolo, quando San Leo venne eretta a città (il primo vescovo è documentato soltanto nell’826). La circoscrizione ecclesiastica facente capo al Montefeltro comprendeva un territorio prevalentemente collinare e montuoso, distribuito tra le Valli del Savio, Marecchia, Conca e Foglia (a parte alcune variazioni, l’antica Diocesi sopravvive ancora oggi con l’intitolazione di San Marino-Montefeltro). Sull’originario sacrario edificato dallo stesso Leone che la tradizione vuole abile tagliatore di pietre, sorse la Pieve (2), dedicata al culto orientale della Dormitio Virginis. L’edificio, costruito in epoca carolingia e rimodernato in età romanica, raccoglie intorno a sé il nucleo della città medievale. Dopo il VII secolo, accanto alla Pieve, fu innalzata la Cattedrale (3), consacrata al culto del Santo Leone. Nel 1173 essa venne completamente rinnovata, nelle forme romanico-lombarde, e unita alla possente torre campanaria di probabile origine bizantina. Il nucleo della città sacra, composto dal Palazzo Vescovile e dalla residenza dei Canonici, veniva così a costituire un vero e proprio agglomerato urbano, la civitas Sanctis Leonis, arricchita di altri edifici dalla dinastia dei Montefeltro stabilitasi a San Leo a metà del 1100. Non a caso essi, discendenti della progenie dei Conti di Carpegna, assunsero il titolo ed il nome proprio dall’antica città-fortezza di Montefeltro-San Leo. Il centro medievale conserva gli edifici romanici, Pieve, Cattedrale e Torre Campanaria, mentre i palazzi residenziali hanno subito numerose trasformazioni principalmente durante il periodo rinascimentale. L’abitato storico si estende intorno alle chiese che si affacciano sulla piazza centrale, intitolata a Dante Alighieri, ed è composto da numerosi edifici: il Palazzo Mediceo (1517-23), la residenza dei Conti Severini-Nardini (XIII-XVI sec.), il Palazzo Della Rovere (XVI-XVII sec.), la Chiesa della Madonna di Loreto e abitazioni costruite fra il XIV e il XIX secolo. Distanziata dall’agglomerato urbano, per evidenti ragioni difensive, è la Fortezza di Francesco di Giorgio Martini. Il primitivo nucleo altomedioevale che dal 961 al 963 era stato assediato Berengario Re d’Italia da Ottone I di Germania, venne ampliato tra il XIII e XIV secolo, quando i Malatesta riuscirono a sottrarre San Leo ai Montefeltro. Il Mastio medievale, difeso dalle quadrangolari torri malatestiane, venne definitivamente ridisegnato dall’architetto senese Francesco di Giorgio Martini per volere di Federico da Montefeltro nel 1479. Egli escogitò la doppia cortina muraria tesa in punta fra torrioni circolari forgiati di beccatelli (4), la munì del grande rivellino(5) rivolto a sud, al di sotto del quale pose una caratteristica casamatta. La nuova forma prevedeva una risposta al fuoco secondo i canoni di una controffensiva dinamica che potesse garantire direzioni di tiro incrociate, da qualunque parte provenisse l’attacco. La fortezza fu protagonista di importanti vicende guerresche durante il periodo rinascimentale: fu sottratta per pochi mesi ai Montefeltro dal duca Valentino nel 1502 e ai Della Rovere dalle truppe medicee nel 1517. Con il passaggio del ducato urbinate al dominio diretto dello Stato Pontificio (1631), la rocca perse il suo carattere di arnese da guerra e fu adattata a carcere. Nel 1788, essendo le carceri della Fortezza di San Leo per la loro forma e posizione molto insalubri e minacciando uno di quei Baluardi imminente ruina, Giuseppe Valadier, nominato da Pio VII architetto dello Stato della Chiesa, fu incaricato di apportare all’intera struttura le necessarie migliorie. Dal 1791, fino alla morte avvenuta il 26 Agosto 1795, vi fu rinchiuso Giuseppe Balsamo, noto come Alessandro conte di Cagliostro, uno dei più enigmatici ed affascinanti avventurieri dell’età dei Lumi. Con l’avvento dell’Unità d’Italia, San Leo non fu oggetto di riadattamenti urbanistici e mantenne inalterato l’impianto urbano.

(1)   La diocesi (in latino dioecesis, dal greco διοίκησις, cioè "amministrazione") è stata dapprima una suddivisione amministrativa dell'Impero Romano; nella Chiesa Cattolica e nelle altre chiese di ordinamento episcopale è una porzione della comunità cristiana delimitata in maniera territoriale e affidata al governo pastorale di un vescovo.

(2)   La pieve era una circoscrizione territoriale civile e religiosa facente capo ad una chiesa rurale con battistero, detta chiesa matrice, alla quale erano riservate alcune funzioni liturgiche e da cui dipendevano altre chiese e cappelle prive di battistero. La pieve è stata successivamente sostituit dalla parrocchia.

(3)   Una cattedrale è la chiesa cristiana più importante di una diocesi, di cui costituisce il centro liturgico e spirituale.

Il nome "cattedrale", o più correttamente "chiesa cattedrale" (ecclesia cathedralis in latino), deriva da "cattedra", perché essa ospita la cattedra del vescovo. Una delle prime ricorrenze della locuzione ecclesia cathedralis si dice fosse presente negli atti del Concilio di Tarragona del 516.

Un altro nome con cui si indica la cattedrale è ecclesia mater, per indicare che è la "chiesa madre" di una diocesi. Data la sua importanza è anche detta ecclesia major. Sempre a causa del suo ruolo di principale di "casa di Dio" in una regione, la cattedrale era chiamata anche Domus Dei, da cui deriva il termine italiano duomo (ed il corrispondente Dom in tedesco). Si noti però che può essere chiamata duomo la chiesa principale - anche non cattedrale - di una città qualsiasi.

Inizialmente venne decretato che la "cattedra vescovile" non venisse posta nella chiesa di un villaggio, ma solo in quella di una città. Questo fatto non comportava difficoltà nell'Europa continentale, dove le città erano numerose e furono i centri da cui la cristianità si diffuse nelle zone rurali. Nelle isole britanniche invece, le città erano scarse e, invece di esercitare la loro giurisdizione su aree definite, molti vescovi avevano influenza su determinate tribù o popolazioni. La cattedra di questi vescovi aveva spesso carattere migratorio.

Secondo il diritto canonico il vescovo è considerato come il pastore della chiesa cattedrale, la cui parrocchia è l'intera diocesi. Per questo motivo i giuristi canonici talvolta parlano della cattedrale come dell'unica chiesa della diocesi, mentre le altre sono considerate cappelle, se relazionate ad essa. Anticamente il territorio della diocesi non era suddiviso in parrocchie: ancora nell'Ottocento il vescovo di Catania riuscì ad aggirare le leggi che confiscavano i beni della mensa vescovile, dimostrando che si trattava dei beni dell'unica parrocchia della sua diocesi.

All'interno della cattedrale «la cattedra deve essere, sempre, una sola e fissa, collocata nella chiesa, cosicché i fedeli possano vedere, facilmente, il Vescovo, il quale deve veramente apparire come il loro capo [...] La chiesa cattedrale è il luogo dove il Vescovo diocesano insegna, celebra e governa». Il diritto canonico prescrive che il vescovo celebri l'eucarestia in cattedrale nelle maggiori solennità e vi conferisca i sacramenti dell'ordinazione e della confermazione  Obbligatoriamente bisogna conservare in cattedrale l'Eucarestia]; deve essere dedicata con rito solenne; è il luogo in cui il vescovo prende possesso canonico della diocesi. Nella cattedrale vengono celebrate le esequie dei vescovi, che possono essere sepolti nella chiesa, contrariamente alla raccomandazione di non seppellire cadaveri nelle chiese.

Alla cattedrale può essere attribuito il titolo onorifico di metropolita, primaziale o patriarcale se la diocesi è retta rispettivamente da un metropolita, da un primate o da un patriarca. Queste distinzioni sono appunto onorifiche e non producono differenze per il diritto canonico. Il titolo di primate veniva conferito occasionalmente a sedi di grande dignità o importanza, come Canterbury, York e Rouen. Lione, dove la cattedrale è tutt'oggi conosciuta come La Primatiale, e Lund possono essere citate come cattedrali realmente primaziali. Come per il titolo di primate, anche quello di patriarca è stato conferito a sedi quali Venezia e Lisbona, le cui cattedrali sono patriarcali solo a titolo onorifico. La cattedrale di San Giovanni in Laterano, è sede cattedrale del Papa in qualità di vescovo di Roma e patriarca dell'occidente, ed è l'unica dell'Europa occidentale a possedere il vero carattere patriarcale. La sua definizione formale è Patriarchalis Basilica, Sacrosancta Romana Cathedralis Ecclesia Lateranensis, anche se la dizione Patriarca di Occidente e quella di Basilica Patriarcale, con papa Benedetto XVI, non compaiono più nell'annuario pontificio.

(4)   Il beccatello è un elemento architettonico usato per sostenere parti sporgenti di un edificio, soprattutto nei castelli e negli edifici storici. Consiste in una mensoletta in legno o pietra che permette di dare appoggio ad una parte di edificio di pianta maggiore di quella sottostante.

(5)   Un rivellino o revellino è un tipo di fortificazione indipendente generalmente posto a protezione di una porta di una fortificazione maggiore. La probabile origine va ricercata in una formazione del tipo iterativo re + vallare cioè fortificare di nuovo, da cui in latino tardo revallo; trattandosi di opere in genere di ridotte dimensioni si sarebbe poi affermato il diminutivo "rivellino". In quanto opera esterna di una fortificazione importante, quasi tutte le grandi fortezze o cinte murarie possedevano uno o più rivellini; questi ultimi, però erano spesso strutture provvisorie (non dovevano offrire protezione ad un assalitore che se ne fosse impadronito cosicché doveva essere facile renderli inutilizzabili nella fronte rivolta alla fortificazione che proteggevano). Quando le fortificazioni sono state smantellate per ricavare nuovi spazi urbani, i rivellini sono state le prime strutture ad essere demolite.

 

Cagliostro

Innumerevoli biografie hanno cercato di fare chiarezza sul misterioso avventuriero che caratterizzò il secolo dei Lumi: taumaturgo, "amico dell'Umanità", cultore e divulgatore delle scienze esoteriche oppure scaltro imbonitore, comune ciarlatano? Il quesito, finora, non ha avuto risposta certa: il mistero che da sempre avvolge le molteplici attività svolte da Cagliostro contribuisce a tenere vivo l'interesse su di lui. Giuseppe Balsamo nacque a Palermo il 2 giugno 1743, dal mercante Pietro Balsamo e da Felicita Bracconieri. A causa delle modeste condizioni economiche, alla morte del padre fu affidato al seminario di S. Rocco a Palermo. Nel 1756 entrò come novizio presso il convento dei Fatebenefratelli di Caltagirone per essere affiancato al frate speziale, dal quale apprese i primi rudimenti di farmacologia e chimica. Nel 1768 sposò a Roma Lorenza Feliciani, avvenente e giovanissima fanciulla dell' età di quattordici anni. Fino al momento del matrimonio non si hanno altre notizie documentate: è presumibile che abbia vissuto di espedienti durante la gioventù. D'altra parte, lo stesso Cagliostro dichiarò pubblicamente di provenire da paesi sconosciuti, di aver trascorso gli anni dell'infanzia alla Mecca e di aver conosciuto gli antichi misteri dei sacerdoti egizi attraverso gli insegnamenti del sapiente Altotas. Sarà monsignor Giuseppe Barberi, fiscale generale del Sant'Uffizio, che nel suo Compendio sulla vita e sulle gesta di Giuseppe Balsamo, redatto nel 1791, smentirà queste dichiarazioni divenendo uno dei suoi più accaniti detrattori. Secondo il Barberi, Cagliostro avrebbe esercitato truffe e mistificazioni anche a Barcellona, Madrid e Lisbona con l'aiuto della maliarda Lorenza, che irretiva uomini facoltosi con arti sottili che andavano dall'avvenenza fisica alla promessa di miracolose guarigioni grazie a polveri e a formule magiche. Risale al 1771 il primo viaggio a Londra della giovane coppia: sembra che là il Balsamo sia finito in prigione per debiti e, per restituire le somme dovute, fu costretto a lavorare come decoratore. Nel 1772 a Parigi, Lorenza si invaghì dell'avvocato Duplessis e, a causa di questa relazione, fu rinchiusa nel carcere di Santa Pelagia, la prigione delle donne di malaffare. La riconciliazione non tardò ad avvenire e i coniugi, dopo varie peregrinazioni in Belgio e in Germania, rientrarono a Palermo e poi a Napoli. Nello stesso anno, il Balsamo si recò a Marsiglia e si cimentò nelle vesti di taumaturgo: sembra che, dietro lauto compenso, fece credere ad un innamorato di poter riacquistare il vigore fisico mediante l'attuazione di alcuni riti magici. Scoperto l'imbroglio, fu costretto a fuggire e a cercare riparo in Spagna, a Venezia, quindi ad Alicante per terminare la fuga a Cadice. Ritornò a Londra nel 1776, presentandosi come conte Alessandro di Cagliostro, dopo aver fatto uso di nomi altisonanti accompagnati da fantasiosi titoli quali conte d'Harat, marchese Pellegrini, principe di Santa Croce: durante questo soggiorno, insieme alla moglie, divenuta nel frattempo la celestiale Serafina, viene ammesso alla loggia massonica "La Speranza". Da questo momento la vicenda di Cagliostro può essere ricostruita sulla base di documenti ufficiali e non su libelli diffamatori fatti circolare dai nemici più acerrimi. La massoneria gli offrì ottime opportunità per soddisfare ogni ambizione sopita. Grazie alle vie da essa indicate e alle cognizioni acquisite, egli poté riscuotere successi appaganti moralmente ed economicamente che lo portarono, dal 1777 al 1780, ad attraversare l'Europa centro-settentrionale, dall'Aia a Berlino, dalla Curlandia a Pietroburgo e alla Polonia. Il nuovo rito egiziano di cui Cagliostro era Gran Cofto, aveva affascinato nobili ed intellettuali con le sue iniziazioni e pratiche rituali che prevedevano la rigenerazione del corpo e dell'anima. Grande risalto ebbe, inoltre, la figura di Serafina, presidentessa di una loggia che ammetteva anche le donne, con il titolo di regina di Saba. Alla corte di Varsavia, nel maggio del 1780, ricevette un'accoglienza trionfale tributata dal sovrano in persona: la sua fama di alchimista e guaritore aveva raggiunto le vette più alte! Considerevole diffusione ebbero in quegli anni l'elixir di lunga vita, il vino egiziano e le cosiddette polveri rinfrescanti con i quali Cagliostro compì alcune portentose guarigioni curando, spesso senza alcun compenso, i numerosi ammalati che, nel 1781, gremivano la residenza di Strasburgo. Il comportamento filantropico, la conoscenza di alcuni elementi del magnetismo animale e dei segreti alchemici, la capacità di infondere fiducia e, al tempo stesso, di turbare l'interlocutore, penetrarlo con la profondità dello sguardo, da tutti ritenuto quasi soprannaturale: queste le componenti che contribuirono a rafforzare il fascino personale e l'alone di leggenda e di mistero che accompagnarono Cagliostro fin dalle prime apparizioni. Poliedrico e versatile, conquistò la stima e l'ammirazione del filosofo Lavater e del gran elemosiniere del re di Francia, il cardinale di Rohan, entrambi in quegli anni a Strasburgo. Tuttavia, Cagliostro raggiunse l'apice del successo a Lione, dove giunse dopo una breve sosta a Napoli e dopo aver risieduto più di un anno a Bordeaux con sua moglie. A Lione, infatti, egli consolidò il rito egiziano, istituendo la "madre loggia", la Sagesse triomphante, per la quale ottenne una fiabesca sede e la partecipazione di importanti personalità. Quasi nello stesso momento giunse l'invito al convegno dei Philalèthes, la prestigiosa società che intendeva appurare le antiche origini della massoneria. A Cagliostro non restava che dedicarsi anima e corpo a questo nuovo incarico, parallelamente alla sua attività taumaturgica ed esoterica, ma il coinvolgimento nell'affaire du collier de la reine lo rese protagonista suo malgrado, insieme a Rohan e alla contessa Jeanne Valois de la Motte, del più celebre ed intricato scandalo dell'epoca, il complotto che diffamò la regina Maria Antonietta e aprì la strada alla rivoluzione francese. Colpevole solo di essere amico di Rohan e di aver consigliato di rivelare la truffa al sovrano, Cagliostro, accusato dalla de la Motte, artefice di ogni inganno, fu arrestato e rinchiuso con sua moglie nella Bastiglia, in attesa del processo. Durante la detenzione, ebbe modo di constatare quanto grande fosse la popolarità raggiunta: furono organizzate manifestazioni di solidarietà e, il giorno della scarcerazione, fu accompagnato a casa dalla folla acclamante. Nonostante il Parlamento di Parigi avesse appurato l'estraneità di Cagliostro e di sua moglie alla vicenda, i monarchi ne decretarono l'esilio: la notizia giunse a pochi giorni dalla liberazione, costringendo il "Gran Cofto" a riparare frettolosamente a Londra. Da qui scrisse al popolo francese, colpendo il sistema giudiziario e preannunciando profeticamente la caduta del trono capetingio e l'avvento di un regime moderato. Il governo francese si difese opponendo gli scritti di un libellista francese Théveneau de Morande che, stabilita la vera identità di Cagliostro e di Serafina, raccontò sulle gazzette le peripezie e i raggiri dei precedenti soggiorni londinesi, al punto che l'avventuriero decise di chiedere l'ospitalità del banchiere Sarrasin e di Lavater in Svizzera. Rimasta a Londra, Serafina fu persuasa a rilasciare compromettenti dichiarazioni sul marito che la richiamò in Svizzera in tempo per farle ritrattare tutte accuse. Tra il 1786 e il 1788 la coppia cercò di risollevare le proprie sorti compiendo vari viaggi: Aix in Savoia, Torino, Genova, Rovereto. In queste città Cagliostro continuò a svolgere l'attività di taumaturgo e ad istaurare logge massoniche. Giunto a Trento nel 1788, fu accolto con benevolenza dal vescovo Pietro Virgilio Thun che lo aiutò ad ottenere i visti necessari per rientrare a Roma: pur di assecondare i desideri di Serafina, era disposto a stabilirsi in una città ostile agli esponenti della massoneria, considerati faziosi e reazionari. Cagliostro, poi, preannunziando la presa della Bastiglia, carcere simbolo dell'assolutismo monarchico, e la fine dei sovrani di Francia, destava particolare preoccupazione, alimentata anche dalla sua intraprendenza negli ambienti massonici. Non trovando terreno fertile nei liberi muratori, che oramai guardavano a lui solo come ad un volgare lestofante, Cagliostro tentò di costituire anche a Roma una loggia di rito egiziano, invitando il 16 settembre 1789 a Villa Malta prelati e patrizi romani. Le adesioni furono soltanto due: quella del marchese Vivaldi e quella del frate cappuccino Francesco Giuseppe da San Maurizio, che fu nominato segretario. L'iniziativa, pur non conseguendo l'esito sperato, fu interpretata come una vera e propria sfida dalla Chiesa che, attraverso il Sant'Uffizio, sorvegliò con maggior zelo le mosse dello sprovveduto avventuriero. Il pretesto per procedere contro Cagliostro fu offerto proprio da Lorenza che, consigliata dai parenti, aveva rivolto al marito accuse molto gravi durante la confessione: era stata indotta a denunciarlo come eretico e massone. Cagliostro sapeva bene di non potersi fidare della moglie, che in più di un'occasione aveva dimostrato scarso attaccamento al tetto coniugale, e per questo sperava di poter rientrare in Francia, essendo caduta la monarchia che lo aveva perseguitato. A tal fine scrisse un memoriale diretto all'Assemblea nazionale francese, dando la massima disponibilità al nuovo governo. La relazione venne intercettata dal Sant'Uffizio che redasse un dettagliato rapporto sull'attività politica ed antireligiosa del "Gran Cofto": papa Pio VI, il 27 dicembre 1789, decretò l'arresto di Cagliostro, della moglie Lorenza e del frate cappuccino. Ristretto nelle carceri di Castel Sant'Angelo sotto stretta sorveglianza, Cagliostro attese per alcuni mesi l'inizio del processo. Al consiglio giudicante, presieduto dal Segretario di Stato cardinale Zelada, egli apparve colpevole di eresia , massoneria ed attività sediziose. Il 7 aprile 1790 fu emessa la condanna a morte e fu indetta, nella pubblica piazza, la distruzione dei manoscritti e degli strumenti massonici. In seguito alla pubblica rinuncia ai principi della dottrina professata, Cagliostro ottenne la grazia: la condanna a morte venne commutata dal pontefice nel carcere a vita, da scontare nelle tetre prigioni dell'inaccessibile fortezza di San Leo, allora considerato carcere di massima sicurezza dello Stato Pontificio. Lorenza fu assolta, ma venne rinchiusa, quale misura disciplinare, nel convento di Sant'Apollonia in Trastevere dove terminò i suoi giorni. Del lungo periodo di reclusione, iniziato il 21 aprile 1791 e durato più di quattro anni, rimane testimonianza nell'Archivio di Stato di Pesaro, ove sono tuttora conservati gli atti riguardanti l'esecuzione penale ed il trattamento, improntato a principi umanitari, riservato al detenuto. In attesa di segregare adeguatamente il prigioniero, egli fu alloggiato nella cella del Tesoro, la più sicura ma anche la più tetra ed umida dell'intera fortezza. In seguito ad alcune voci sull'organizzazione di una fuga da parte di alcuni sostenitori di Cagliostro, nonostante fossero state prese tutte le misure necessarie per scongiurare qualunque tentativo di evasione, il conte Semproni, responsabile in prima persona del prigioniero, decise il suo trasferimento nella cella del Pozzetto, ritenuta ancor più sicura e forte di quella detta del Tesoro. Il 26 agosto 1795 il famoso avventuriero, oramai gravemente ammalato, si spense a causa di un colpo apoplettico. La leggenda che aveva accompagnato la sua fascinosa vita si impossessò anche della morte: dai poco attendibili racconti sulla sua presunta scomparsa giunti fino ai giorni nostri, è possibile intravedere il tentativo, peraltro riuscito, di rendere immortale, se non il corpo, almeno le maliarde gesta di questo attraente personaggio.

 

Il Convento di Sant'Igne

A San Francesco d’Assisi (1182-1226) è attribuita la fondazione del Convento di Sant’Igne, risalente al XIII secolo.

L’8 Maggio 1213, durante la sua missione apostolica, San Francesco sostò a San Leo ove erano iniziati i festeggiamenti per l’investitura a cavaliere di Montefeltrano II, figlio di Bonconte di Montefeltrano. In questa occasione egli tenne una predica sui versi di una canzone amorosa del tempo: ’’Tanto è il bene che io m’aspetto che ogni pena m’è diletto’’. Tra gli illustri personaggi presenti alla cerimonia vi era anche il Conte Orlando de’ Cattani, signore di Rocca di Chiusi nel Casentino il quale, inter milites imperatoris strenuissimus miles, gli offrì i propri possedimenti sul monte della Verna, luogo adatto alla riflessione e alla contemplazione, dove il Santo ricevette la Sacre Stimmate. La donazione venne effettuata in uso libero, poiché San Francesco non era solito accettare in proprietà nec domum nec locum nec aliquam rem, e redatta il 2 Luglio 1274 dai figli del Conte Orlando, per rendere legale l’offerta. L’incontro tra il Santo e il suo benefattore avvenne in una stanza del Palazzo dei Conti Nardini, oggi adibita a cappella.

La fresca e travolgente spiritualità di Francesco conquistò, in particolare modo, Bonconte di Montefeltrano che pensò bene di offrigli un luogo di sosta nel suo dominio: Santegna, una selva in aperta campagna, dinanzi all’altissima rupe ove si trova il suo castello, che oggi è nota a tutti come Sant’Igne. Nel corso dei secoli, sull’originaria denominazione di questo luogo è prevalsa la tradizione, riportata da San Bonaventura nella Leggenda Maggiore, che racconta dell’apparizione miracolosa del ‘’sacro fuoco’’ (ignis=fuoco) che indicò a San Francesco il sentiero che conduceva al Monte Feretrio. Tuttavia, il miracolo è narrato come avvenuto tra la Lombardia e la Marca Trevigiana, presso il fiume Po; inoltre la notizia non trova alcun riscontro in Tommaso da Celano, primo biografo del Santo. Ad accrescere l’equivoco contribuì sicuramente il Toponimo Santegna che denominava il territorio ove sorse il convento francescano.

Il dono ricevuto da Bonconte risultò gradito al Poverello d’Assisi e ai suoi frati che erano soliti trascorrere le ore dedicate alla preghiera in un luogo appartato dal centro abitato, dove essi si recavano di buon mattino, per compiere l’opera d’evangelizzazione.

Il luogo di Sant’Igne divenne presto Convento posto a capo della Custodia Feretrana: tra il 1215 e il 1223 venne edificata una piccola costruzione in pietra locale composta da due stanze adibite rispettivamente a dormitorio e a refettorio e da una piccola cappella dedicata alla Vergine.

Nel 1230, per volontà del Vescovo Ugolino, figlio di Bonconte, la primitiva chiesa fu ampliata in un edificio con pianta a croce latina, coperto a capriate, fatta eccezione per la parte absidale che risultò voltata ad opera di maestranze locali, come testimonia anche il portale a tutto sesto simile a quello di Poggiolo di Talamello e della chiesa francescana di Montefiorentino.

La piccola chiesa, che conserva l’originaria dedicazione alla Vergine, è ad aula unica, con la zona presbiteriale innalzata su due gradini a partire dal transetto; sono tuttora visibili le monofore strombate e trilobate. Nel lato destro del transetto, è conservato un segmento del tronco dell’olmo sotto il quale Francesco predicò a San Leo, abbattuto nel 1662.

Tramite una porta ‘’battitora’’ si accede ad un semplice chiostro quadrangolare, delimitato da venti colonnine ottagonali con capitelli a foglie d’acqua; il tetto è a spiovente verso il giardino interno. La costruzione è, inoltre, dotata di campanile a vela con fornici e due campane; sul fronte vi è uno stemma quattrocentesco di Federico da Montefeltro scalpellato nel Cinquecento.

Sul lato est del chiostro si affaccia la sala capitolare, caratterizzata da due monofore trilobate sul lato esterno e dalle due finestre ai fianchi dell’ingresso che avevano la funzione di far assistere al capitolo anche i conversi e famigli che non avevano diritto di accesso all’aula.

Nel 1244 la nuova chiesa francescana di Sant’Igne fu consacrata dal Vescovo Ugolino, come testimonia una lapide ritrovata nell’orto del convento: ’’ANNO D.M. CCXLIIII T.INNOCE TII ET UGOLINI EPISCOP FERETRI’’, Anno Domini MCCXLIIII tempore Innocentii pape et Ugolini episcopi feretri (traduzione: Nell’anno del Signore 1244 al tempo di Papa Innocenzo IV e di Ugolino Vescovo di San Leo).

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